Il campionato più bello del mondo

E’ un grande leit motif delle discussione tra tifosi. “Ah, com’è bella la Premier Lìg!”. “Certo che come segnano in Liga, non segnano da nessuna parte!”. “Ma il campionato più bello del mondo” – manco a dirlo – “è il nostro, eh!”. E la domanda su quale sia il campionato più bello è una domanda legittima, anche per capire le dinamiche di investimenti e trasferimenti di calciatori. Ma la risposta mi pare tutt’altro che scontata. Perché il primo problema è definire il termine “bello”, una questione estetico-semantica che si perde nella notte dei tempi.

Forse bello vuol dire “fancy”, di moda. Se questo è il criterio la Premier League è chiaramente il luogo maggiormente attraente: più pubblicità, più soldi, più attenzione mondiale. Tutti vogliono stare in Inghilterra, e più ci vogliono stare, più altri ci vogliono andare. Un tempo (parliamo degli anni 80) era il campionato italiano a suscitare questa spirale di “hype”. Ma lo sviluppo di queste dinamiche è abbastanza tradizionale: dopo un po’ la moda passerà e il testimone (insieme al testimonial) passerà in altri Paesi. Onestamente mi pare un criterio poco condivisibile per definire il campionato “migliore”, anche se nella moderna società dell’apparire a tutti i costi potrebbe essere il principale motivo per cui la Premier viene vista come il top del calcio mondiale in questo momento.

Seguendo i valori di riferimento del Paese che Non c’è forse bello vuol dire “ricco”. E qui il discorso già è più intricato. Perché per ricco cosa intendiamo? Intendiamo con maggiori capacità di spesa sul mercato? Oppure con maggiori ricavi complessivi per le società? Perché non è scontato che sia la Premier League ad avere questa palma. E il contendente in questo caso non è certamente la Serie A o la Liga, ma la Bundesliga. Infatti se prendiamo i ricavi delle società è certamente il campionato tedesco quello economicamente più prospero, un risultato ottenuto alla tedesca: piani di medio-lungo termine, serietà organizzativa, pragmatismo assoluto delle soluzioni anche a scapito dei risultati nel breve termine. E io ho la sensazione che presto la Bundesliga diventerà oggetto di molte mode. Viceversa la Liga (se si eccettuano Real Madrid e Barcellona con ricavi da 400 e 350 milioni rispettivamente) è un campionato sull’orlo del fallimento per atteggiamenti decisamente spregiudicati avuti nel passato. La Serie A è un campionato già fallito e senza il decreto spalma debiti e interventi dei politici di una o dell’altra parte sarebbe già semi-dilettantistico da un po’. E pure la Premier non se la passa bene con debiti abnormi (in alcuni casi giustificati dai ricavi – Manchester United – in altri molto meno – Liverpool) e con spesso un rapporto tra monte ingaggi e ricavi fuori da ogni senso (Birmingham intorno al 99%, ma molte squadre medie sono ben oltre l’80%). Se il criterio è questo la pacchia sta per finire. E la Bundesliga aspetta le televisioni al varco.

Però anche questo termine a me non convince. Forse sono un po’ romantico, ma ci sono criteri maggiormente legati allo sport agonistico che apprezzo di più. Forse il campionato più bello è quello più “combattutto”. Cerchiamo di andare a vedere che cosa significa combattuto, perché anche questo è un termine controverso. Se per combattutto intendiamo dire che ogni partita presenta livelli di difficoltà comparabili (salvo head-to-tail, o testacoda che dir si voglia, diciamo) io penso che la Bundesliga e la Serie A siano decisamente più difficili di Liga e Premier League. E i risultati delle squadre di media entità nei confronti delle grandi e delle piccole nei confronti delle medie sono lì a dimostrarlo, e non solo in avvio di campionato dove i livelli di preparazione atletica e tattica sono estremamente disomogenei. In Premier League esiste il mito – distrutto solo dall’anticalcio dello Stoke City o quasi – che le piccole e le medie debbano giocarsela a viso aperto, con risultati da goleada spesso e volentieri. Nella Liga l’assenza del concetto di calcio difensivo fa sì che gli scontri con le squadre dalla decima o dodicesima posizione in giù siano delle formalità per tutti i team nella parte sinistra della classifica. Viceversa il tatticismo estremo della Serie A e il dinamismo giovanile estremo delle squadre tedesche livellano molto di più la situazione generale, rendendola decisamente più “combattuta”.

Ma se per “combattuto” si intende vario in chi vince e in chi perde il discorso è molto diverso. Qui emerge di nuovo la Bundesliga e la Premier League, oltre che a sorpresa – almeno negli ultimi anni – la Ligue 1 francese. In Italia negli ultimi cinque anni ha sempre vinto l’Inter, dietro la quale si sono sempre piazzate Milan e Roma (in assetto variabile) e una quarta squadra che però dall’anno prossimo non farà più la CL (peraltro meritatamente considerata la distanza compiuta dalle quarte classificate negli ultimi cinque anni in Europa). E anche andando più indietro è stato un duopolio Milan-Juve durato 20 anni. Lasciamo perdere in che contesto. In Spagna negli ultimi cinque anni ha vinto due volte il Real e tre volte il Barcellona. Dietro anche qui si sono piazzati sempre il Siviglia, e molto più raramente il Valencia o il Villareal. Viceversa in Francia a parte la parentesi eptennale del Lione hanno sempre vinto e tuttora vincono sempre squadre diverse. In Germania a parte la frequente presenza del Bayern Monaco al top negli ultimi cinque anni hanno vinto il campionato anche Wolfsburg e Stoccard, nonché il Werder Brema sette anni fa. La situazione forse più mediata, senza un livellamento con turnover al top altissimo, ma senza staticità totale, è forse quella della Premier League in cui le squadre di top sono quattro con due o tre outsider spesso determinanti: Chelsea, Manchester United, Liverpool, Arsenal sopra tutte. Tirando le somme se per bellezza si guarda la varietà delle squadre vittoriose la Ligue 1 e la Bundesliga risultano al momento le più interessanti, seguite subito dopo dalla Premier Ligue.

Ma ci sono anche altri termini per definire il bello. Per esempio bello potrebbe voler dire “giovane”, e anche in questo caso l’Italia e la Spagna sono fanalini di coda, ma anche la Premier League non è messa benissimo. Il campionato con il maggior equilibrio generazionale è certamente la Bundesliga. Subito seguita dalla Ligue 1. Non ho i dati sottomano, ma penso che a guardare le età dei giocatori in campo (non delle rose dove si fa in fretta ad inserire elementi delle giovanili che non vedranno mai il campo), si avrebbero delle brutte sorpese, non tanto dalla gerontocratica Italia, ma dalla tanto rimirata Premier.
Oppure si può pensare che bello voglia dire “divertente”, ma anche in questo caso il termine è difficile da delimitare. Per esempio per un vecchio trombone schiavo dell’ideologia come me un campionato dove la tattica è l’elemento predominante è un campionato divertentissimo, che mi permette di cercare la tattica, la strategia e l’organizzazione dietro ogni mossa, ma non è un valore universale. Per esempio per qualcuno con un temperamento più prono all’entusiasmo e all’estetica, forse un campionato come quello spagnolo dove si buttano tutti avanti con ampi spazi e abbondanza di occasioni da gol è più divertente, e quindi più bello. E poi ancora, per qualcuno che fa dell’agonismo e della fisicità una questione importante, vedere gente che corre avanti e indietro tutto il tempo e che non sta a fare sceneggiate per terra ogni due minuti, come nella Premier League, è molto più divertente che non i teatrini latini. Il termine quindi se declinato come “divertente” è veramente troppo aleatorio.

La domanda “qual è il campionato più bello” si dimostra essere il tipico falso argomento per tirare le discussioni avanti per sempre senza poter convenire su alcun criterio per concludere la diatriba. L’unica cosa che è certa è che un campionato fa emergere la squadra più continua in fortuna e risultati durante l’anno e che il valore statistico dei dettagli si riduce moltissimo in una competizione di lunga durata. Checché ne dica la propaganda del Presidente del Consiglio.

Lavoratori? Prrrrrrr! A volte sì, a volte no, se famo du’ spaghi?

E’ fin troppo facile accodarsi al populismo tanto di moda nel Paese che Non c’é e dire che chi guadagna milioni non ha diritto di scioperare, ma questa affermazione non rispecchia per intero il mio pensiero. D’altro canto per me è evidente che i lavoratori non sono tutti uguali e che quello che ha senso pretendere da un AD da 9 milioni di euro l’anno non è quello che si può chiedere a chi prende 800 euro al mese. Allora, l’approccio migliore per valutare il minacciato sciopero dei calciatori del 25-26 settembre è quello di analizzare i punti della contesa e cercare di farsi un’opinione propria su tutta la questione, prima di decidere se la mobilitazione merita o meno la nostra solidarietà.

Riprendo i punti uno per uno dall’edizione odierna della Gazzetta (ovviamente la mia valutazione si basa su quel poco che conosco del contratto nazionale e sulla sintesi estrema presente sul giornale milanese, per cui è suscettibile di evoluzione), ricordando che la questione riguarda solo i contratti di A, anche se Lucarelli ha furbamente ricordato che quello che succederà influirà anche sui contratti delle leghe inferiori, un po’ come le scelte della fiat su Melfi determineranno a pioggia un bel po’ di cambiamenti in tutte le imprese nel paese, più nel male che nel bene:

(1) Per la Lega deve essere flessibile, con i soldi in gran parte legati ai risultati, l’Aic accetta la parte variabile solo per il 50%.

Questo è sempre stato un mio cavallo di battaglia. Considerato il regime privilegiato dei calciatori in termini di emolumenti e le cifre allucinanti che percepiscono annualmente (la media per un calciatore di serie A è 1,3 milioni di euro all’anno), chiedere che ci sia un meccanismo per contenere i costi a fronte di performance scadenti tanto quando massimizzare il reddito in caso di buone stagioni mi pare necessario. Sia per riequilibrare un pochino la bilancia a favore delle società, ormai da tempo ostaggio delle bizze dei giocatori e dei taglieggi dei loro agenti, sia per stimolare i calciatori a fare al meglio quello che sono pagati per fare. Mi pare che un accordo sul 50% fisso massimo e il resto variabile, come richiesto dall’AIC (anziché qualcosa tipo 20%-30% fissi e resto variabile) sia ampiamente raggiungibile. Anche considerato che ora la percentuale è 75%-80% fisso e resto variabile. E la cosa avrebbe un innegabile vantaggio anche a livello del famigerato Fair Play Finanziario, permettendo di contenere molto il monte ingaggi (costo fisso considerato nel calcolo del FPF) e di variare molto la parte variabile degli emolumenti.

(2) Per la Lega il calciatore deve fare soltanto il calciatore, per l’Aic deve restare libero di decidere cosa fare fuori orario calcio.

Su questo storco ampiamente il naso. Da altre fonti non si capisce se la richiesta di “esclusiva” della Lega riguardi ogni attività o attività cosiddette “concorrenti”, anche se a questo punto andrebbe definito quali sono. Se la richiesta di non svolgere attività concorrenti mi pare ormai un classico soprattutto nei rapporti di lavoro lautamente remunerati (ma non solo, si pensi agli NDA che ti chiedono di firmare in qualsiasi azienda del settore tecnologico o farmaceutico anche se sei un impiegato in fondo alla scala gerarchica), la richiesta di non svolgere alcuna attività mi pare decisamente lesiva della fondamentale libertà da parte delle persone, quale che sia il loro reddito, di fare un po’ il cazzo che gli pare. Questo punto lo trovo controverso, ma penso che sarei d’accordo con la richiesta di non fare attività concorrenti, definendole in maniera precisa in sede di contratto però.

(3) La Lega chiede codici ferrei di condotta ed etica anche fuori dal campo, l’Aic è per mantenere libertà assoluta nel tempo libero.

Su questo sto con la Lega. Grossa visibilità comporta grossa responsabilità: io mi sarei anche un po’ rotto le palle di gente che dà il cattivo esempio. Ovviamente bisognerebbe guardare cosa contiene il codice deontologico del calciatore, ma in generale penso che un pochino più di integrità soprattutto in quei lavori che prevedono grande attenzione dell’opinione pubblica sarebbe auspicabile. Per mia indole se gli operai fossero pagati 5000 euro al mese mi risulterebbe più comprensibile chiedergli un atteggiamento rigoroso sul lavoro: se mi paghi quattro lire, pretendi un impegno da quattro lire. Diciamo che non mi sforzerò. Ovviamente non sono a favore di un irrigidimento che vada a decidere che cosa uno può fare o non fare, ma solo una richiesta di tutela del bene che viene pagato caro (anche dai tifosi). D’altronde avremmo anche un aspetto positivo: i calciatori, e forse molti che li seguono come semidei, si renderebbero conto che esistono cose che un uomo fa e cose che un uomo non fa, e che esistono i limiti alla propria voglia di fare tutto quello che ci passa per la testa anche passando sopra la pelle altrui.

(4) Le società chiedono che le cure dipendano esclusivamente da specialisti di fiducia del club, i giocatori vogliono restare liberi di scelta facendo pagare al club.

La chiave del punto mi pare: “facendo pagare al club”. Secondo me il diritto alla salute è inalienabile, ma d’altro canto è difficile che una società scelga specialisti che rompono i loro beni più preziosi (i calciatori). Secondo me andrebbe stabilito un tariffario dei tipi di intervento e tutto ciò che costa di più di tale tariffario è a carico del calciatore, che se giustamente vuole un super esperto che paga il doppio deve pagare la differenza. In alternativa al tariffario: esplicitare nel contratto che la cifra eccedente i costi preventivati dagli esperti medici di fiducia del club sono a carico del calciatore. Un po’ come nella sanità pubblica: io ho l’ASL, che costa poco. Se voglio andare nella clinica privata, un pezzo di servizio lo copre il ticket, il resto lo copro io a seconda di che livello vado cercando. Certo poi nella sanità pubblica c’è tutto un altro discorso da fare sui tempi e sulle mostruosità che il passaggio alla sanità privata ha generato (su cui non sono d’accordo, se non si fosse capito). Ma che i calciatori pretendano di andare dagli amici propri e far pagare il club, magari una cifra doppia rispetto alle strutture collegate alla società, mi pare francamente una richiesta un po’ fuori dal mondo. E che non trova riscontro negli altri regimi contrattuali in Italia.

(5) Sanzioni automatiche per i club in caso di mancanze classiche, l’Aic vuole restino di volta in volta decise dal collegio arbitrale.

Questo punto francamente non vedo il perché il collegio arbitrale non possa andare bene. Casomai stilerei una listino delle multe a cui il collegio arbitrale possa riferirsi (ma mi pare ci sia già). Mi pare un punto che messo giù così non esplicita bene la differenza con il regime attuale. Sospenderei il giudizio.

(6) La lega vuole riformare il collegio arbitrale con un presidente esterno al calcio, l’Aic insiste per non toccarlo, con presidente sorteggiato tra quelli designati da Lega e Aic.

Sull’arbitrato è in corso una discussione molto intensa anche nel mondo del lavoro “ordinario”. La presenza di un presidente neutro secondo me è elemento di garanzia in un collegio arbitrale. Questo vale in generale e vale anche in particolare nel mondo del calcio. Una volta accettato l’arbitrato per una serie di questioni, senza la presenza di un esterno non vedo come possa essere equo il giudizio.

(7) Per la Lega il tecnico deve avere la possibilità di decidere di far allenare anche in più gruppi, l’Aic è per mantenere il gruppo unico.

Anche su questo punto il desiderio dell’Aic mi pare difficilmente condivisibile. Nei margini del fatto che uno deve potersi allenare, non si capisce perché si debbano porre dei paletti ai metodi di allenamento. E se un gruppo di giocatori non fa più parte del progetto della società, fatto salvo che devono poter usare le strutture per tenersi in forma e avere ancora mercato, non si capisce perché non possano allenarsi a parte.

(8) La Lega chiede che un giocatore non possa rifiutare il trasferimento ad un club di stessa qualità e con soldi garantiti. Se rifiuta, risoluzione del contratto ma pagamento del 50% dell’emolumento e libertà di firmare con chi vuole. Per l’Aic è reintroduzione del vincolo.

Questo è certamente il punto più controverso. Ob torto collo se mi chiedessero di scegliere una posizione, quella della Lega mi pare paragonabile al ricatto di Marchionne. Un contratto è un contratto: non puoi obbligarmi a rescinderlo se non voglio, a meno che tu non mi offra qualcosa. Se riequilibro i contratti in termini di emolumenti, sarà compito della società fare valutazioni accorte. Se faccio un quinquennale a un 35enne non è che poi mi posso stupire che non se ne voglia andare prima. Se il quinquennale prevede una parte fissa contenuta, la cosa pesa relativamente sui bilanci e mi posso permettere di tenere il calciatore senza troppe menate. D’altronde la mediazione offerta di pagare il 50% degli stipendi rimasti come buonauscita e di lasciare il cartellino in mano al giocatore mi pare interessante: per molti giocatori e per molte società salverebbe capra e cavoli. Quindi diciamo che l’obbligo di accettare il trasferimento a parità di condizioni con annessa compensazione in caso di rifiuto potrebbe essere una strada da percorrere per trovare la giusta mediazione. D’altronde il diverso regime di tassazione delle buoneuscite consentirebbe già di percorrere questa strada, ma spesso le società preferiscono aspettare e vedere di trovare un acquirente più gradito l’anno successivo.

In generale l’argomento di come concludere un rapporto di lavoro non soddisfacente è il grande equivoco grazie al quale si è distrutto il mercato del lavoro e il futuro di almeno un paio di generazioni in Italia (e non solo): il punto cruciale è sempre stato come rendere più equo il processo di licenziamente bilanciando diritti del lavoratore e necessità delle imprese, ma anziché affrontare subito questo punto, prima si è voluti passare attraverso una flessibilizzazione totale del mercato del lavoro, alimentando un circolo vizioso di scontro e incomprensioni tra chi lavora e chi paga il lavoro guadagnandoci. Forse se dal lontano 1992 si fosse affrontato solo questo punto, gran parte dei diritti dei lavoratori sarebbero ancora lì. Forse adesso la parola flessibilità non sarebbe una patina ipocrita intorno alla parola precarietà.

Perché il punto è tutto qui. Equiparare i lavoratori “ordinari” che percepiscono 800-1000 euro al mese a chi ne percepisce 100 volte di più non è un giochino che paga. Perché non è uguale dover fare i conti per arrivare alla fine del mese e dover scegliere se prendersi una macchina da 60 o da 120 mila euro. Non è uguale manco per il cazzo.

Il problema è sempre il solito. Dipende dal nostro punto di vista. Nel mondo del calcio io penso che il peso delle società rispetto a quello di calciatori e agenti è troppo piccolo, e penso che questo alimenti in maniera per nulla virtuosa il mondo affaristico del pallone. Penso che sia necessario – da tifoso forse – che le società possano farsi valere soprattutto nei casi in cui i calciatori si ritrovano a fare i pensionati milionari, fregandosene di quanto valga emotivamente e sportivamente il loro lavoro per milioni di persone. Penso ovviamente che questo non possa andare in contrasto con la libertà delle persone di fare quello che vogliono e di esprimere le loro opinioni. Ma non mi sembra che nella bozza degli otto punti ci siano (a parte un paio di casi) elementi così draconiani come l’AIC vorrebbe far credere.

Trovo poi francamente insopportabile e ipocrita che tutti sostengano a gran voce le mille schifezze perpetrate nel nome della flessibilità sulla pelle dei lavoratori “ordinari”, costretti a vivere ogni anno l’odissea della ricerca di un lavoro a poche centinaia di euro al mese, nel disperato tentativo settimanale di far quadrare i conti, con la prospettiva di essere presto completamente tagliati fuori dal mercato del lavoro e senza alcuna tutela per garantirsi una vita dignitosa. E che poi nel caso dei calciatori si faccia i paladini dello Statuto dei Lavoratori. Come ho detto. Nel mondo del lavoro usciamo dall’empasse solo se teniamo la barra a dritta sulle cose importanti e trattiamo su quelle ragionevoli. Nel passato si sono già commessi errori: l’ingessamento del mercato del lavoro in Italia è stato a lungo tempo una realtà. Adesso in molti si sono accorti che le cure erano peggio della malattia e che la totale deregulation rispetto ai diritti dei lavoratori ha creato una schiera di giovani e meno giovani che difficilmente si lasceranno coinvolgere nel progetto dell’azienda o del datore di lavoro, e che più facilmente cercheranno di fregare lui o lei come sono stati derubati loro del proprio futuro. Forse bastava tenere i regimi contrattuali com’erano e puntare al problema vero: riformare le forme e i modi e i limiti con cui concludere un rapporto di lavoro.

Anche nel caso dello scontro AIC-Lega mi pare che il punto nodale sia tutto lì. Perché per il resto è difficile trovare un punto in cui trovarsi d’accordo con i “milionari del pallone”. Spero di aver chiarito perché secondo me lo sciopero dei calciatori è un calcio in faccia alla miseria, al di là del populismo facile con cui viene tacciata anche giustamente questa posizione.

[repost] Fatah Verona

 

Ripubblico da iostoconmancini, un pezzo di Stefano Massaron chiaro e lucido su come funzionano (in piccolo, ma di sicuro) le curve di tutta Italia (e non solo le curve mi sa)

 

E’ bello, in questo momento,
essere sia interisti che veronesi – di origine e di famiglia paterna,
anche se non di nascita. E’ bello perché così si può parlare di tante
cose senza destare sospetto alcuno.

La prima è una verità inconfutabile, e sfido chiunque a confutarla: i veronesi sono razzisti.
Lo sono sempre stati e continueranno ad esserlo, perché ce l’hanno nel
sangue, ribollito dal sole che devasta le campagne piatte da giugno a
ottobre e inacidito dai nugoli di zanzare che se ne cibano senza sosta
in un perenne ronzio che, se non ci sei abituato, ti fa uscire di
matto.

Erano razzisti i miei prozii e
i miei zii, che facevano i contadini a pochi chilometri dalla Fatal
Verona (sempre sia lodata l’Hellas per quell’indimenticato 5-3 che
rifilò al Milan togliendogli la prima stella di sotto il naso), lo
erano i loro amici, lo erano le loro mogli, lo sono i loro nipoti.
Ricordo benissimo il disprezzo con cui i contadini di Rovigo (prego
controllare sulla cartina le relative coordinate geografiche) venivano
chiamati "Quei de zò" – "Quelli di giù" – e l’odio che veniva dedicato a chiunque fosse teròne; la semplice violenza verbale della parola Terònia
per identificare tutto ciò che fosse al di sotto di Roma e il fastidio
con cui venivano trattati e sopportati quei pochissimi emigrati
meridionali che osavano fare i braccianti nei campi spaccati dal sole.

Siccome sono vecchio, erano altri tempi, e il razzismo innato in ogni veronese si concentrava su di loro, i teròni,
ma non è che ci voglia una laurea in fisica nucleare per immaginare
che, nell’unica città in cui Forza Nuova ha dei legittimi
rappresentanti in consiglio comunale, ora quello stesso odio si sia
esteso (non spostato, badate bene, ho detto soltanto esteso) agli immigrati e agli extracomunitari in genere.

Figuriamoci poi quando si parla di negri.

Italiani? Ma non scherziamo: per il veronese DOC, non è italiano nemmeno uno nato a Latina, figuriamoci un nero.

Non scherziamo, Campedelli, éto capìo? ["Hai capito?" – NdA]

E, già che ci siamo, un bel "non scherziamo" anche a Di Carlo e, vieppiù, all’integerrimo integralista sindaco Tosi.

Funziona così, ormai: tentano
di prenderci per il culo, ma non ci riescono. E’ il destino cinico e
baro che gioca a loro sfavore: una volta sono i numeri diramati dalla
stessa SKY, un’altra volta – ahiloro – uno dei collaboratori di questo
blog ha passato a Verona e nel veronese gran parte della sua infanzia e
ha lì qualcosa tipo centosettantuno parenti ancora in vita.

Uno dei quali mi son preso la briga di consultare.
Siamo cugini alla lontana, tipo quarto o quinto grado, e nonostante il
disprezzo reciproco che ci slega, sono riuscito a farlo parlare.

Patto: non essere nominato.
Cosa che mi trova più che d’accordo, perché, francamente, mi vergogno.
Non abbiamo lo stesso cognome, ma magari qualcuno poi ci associa. Vurìa mai.

Mi dispiace di arrivare un poco
fuori tempo con questo pezzo, ma ci tenevo. Ci ho messo qualche giorno
a contattarlo, perché anche su Facebook non è che mi faccio vedere
molto, ma lo ricordavo come esponente di spicco di quella che, assieme
alle omologhe di Inter e Lazio, è la curva più razzista ed estremista –
di destra – d’Italia: gli ultras dell’Hellas Verona.

Già – e con questo termino la mia premessa – perché il vero veronese tifa Hellas, non Chievo.
Mio zio, nell’Ottantacinque, ha lasciato libere le vacche dopo l’ultima
giornata di campionato. E il Chievo, da me odiato un po’ per motivi
familiari (Hellas, come già spiegato) e in parte per la schifosa
retorica da Pandoro che ne ha accompagnato la "favola" fin da quando
sono arrivati in serie A, è una squadra che proprio detesto con tutto
me stesso.

Ma veniamo a Mister X.

Lo contatto su Facebook, acconsente a sentirci per telefono.

Ci salutiamo con notevole imbarazzo.

[Di seguito qualche stralcio, ricavato dagli appunti che ho preso frettolosamente.]

Io: Ti ricordi di me?

Lui: Non molto, ma mi vedo sempre con tuo cugino.

Io: Quale?

Lui: [Nome e Cognome], capito?

Io: Sì, certo.

[…]

Io: Senti, ma ci vai ancora allo stadio?

Lui: Certo. Sempre, ci andiamo sempre.

Io: Serie C1?

Lui: Non scherzare, mona. Andiamo al Cèo [Chievo – NdA]. La serie A."

Io: "Ma non lo odiavate?"

Lui: "Sì, ma stacci tu in serie C. E poi i sempre de Veròna."

Io: "Quindi ora siete tutti lì?"

Lui: "Sì. Tuti. Xémo tuti al Cèo."

Io: "Spiegami ‘sta cosa dei cori razzisti contro Balotelli."

Lui: "Xè negro."

Io: "Fantastico. Dai, sul serio. L’hai vista la mia pagina di Facebook, allora?"

Lui: "Sì, ti xè un comunista de merda."

Io: "Esatto."

Lui: "Lo sai che mi son de Forza Nuova, vera?"

Io: "Sì, immaginavo."

[Altri vari convenevoli.]

Io: "Mi spieghi come funziona?" [Il reclutamento allo stadio – NdA]

Lui: "E’ lì che facciamo
politica. Andiamo in massa, cioè, molti di noi si conoscono già, ovvio,
e ci andiamo insieme, tutti insieme, e lì parliamo con i ragazzini."

Io: "Cosa gli dite?"

Lui: "Non c’è molto da dire. Qui sèmo tuti incazzati per ‘sti negri, sai. Che ormai son dapertuto. I butéianca lori. Li invitiamo alle nostre riunioni, e un po’ ci vengono." [Bambini – NdA] son già incazzati

Io: "E poi tornate insieme allo stadio?"

Lui: "Certo, è allo stadio che ci divertiamo."

Io: "Con i cori razzisti, i volantini eccetera?"

Lui: "Sì. Ma dimmi, te la pubblichi, ‘sta roba?"

Io: "Sì."

Lui: "Non fare il mio nome."

Io: "Okay. Non ci penso nemmeno, sta’ tranquillo."

[…]

Io: "Quindi il reclutamento avviene allo stadio e fuori, ma comunque è allo stadio che vi sfogate, giusto?"

Lui: "No. Facciamo sfogare loro, i ragazzi. A me non serve."

Io: "E Balotelli?"

Lui: "E’ negro. E vuole essere italiano. E’ ovvio che se la prendono con lui."

Io: "Perché non sta zitto e buono?"

Lui: "Vàrda, è la stessa cosa. Che sta zitto o che parla, non cambia un casso."

Io: "E Luciano? Quello è dei vostri."

Lui: "Sì, ma è l’unico. Non ci piace, ma lo lasciamo in pace. I ragazzini odiano anche lui."

Io: "Anche lui?"

Lui: "Certo. Sperémo che non ne vengono altri."

[…]

Io: "E i tifosi del Chievo? Quelli di una volta? Dove sono?"

Lui: "In un posticino, in basso, son quatro gati."

Io: "Che rapporti avete con loro?"

Lui: "Tolleranza. Non ci rompono le balle, noi non le rompiamo a loro."

Io: "Quindi tutta la curva dell’Hellas segue il Chievo, adesso?"

Lui: "Non tutta. Ma tanti sì. Hai visto quanti siamo? All’inizio erano in venti." [Ride.]

Io: "Quindi i cori razzisti ci sono stati."

Lui: "Ma sì." [Ride.]

Io: "E il tuo partito cosa dice?"

Lui: "In che senso?"

Io: "Approva oppure no?"

Lui: "Approva, approva. Non ufficialmente, ma approva." [Ride ancora.]

[Altre cose poco significative.]

Che dire, fratelli nerazzurri?

Non aggiungo altro. So che questa volta non sono riuscito a farvi ridere, ma qui, da ridere, non c’è proprio niente.

Delle esternazioni sacrosante
di Mario Balotelli dopo la partita e dei vergognosi commenti di Mario
Sconcerti in primis e del discutibile sindaco Tosi poi hanno già
parlato Simone e altri, inutile che lo faccia io: ho voluto darvi –
anche se in ritardo, ma non è dipeso da me – il punto di vista di un tifoso dell’Hellas trapiantato al Chievo.

Mi viene in mente soltanto una
frase, prima di chiudere: Campedelli dovrebbe veramente pensare
all’impasto dei Pandori, e pensarci benissimo e non pensare a
nient’altro, prima di parlare del suochi sono e cosa fanno quelli che hanno occupato la sua Curva delle Favole.
pubblico. Perché Campedelli sa meglio di noi

Premio Fair Play.

Sì, come no.

STEFANO MASSARON 

 

Ultimo modello di tifoso: il razzista azzurro

 

Riportiamo, tanto per far vivere ogni tanto il sito, e a dispetto degli altri soci che parlano parlano ma alla fine non fanno una mazza, un articolo da un sito di tifosi interisti, ma che mette in luce un fenomeno orribile di cui siamo stati testimoni in svariati forum di tifosi: l’emergere di un razzismo per nulla velato che si riassume nella frase "non esiste un negro italiano". Ci spiace per tutti i nazistoidi in giro per gli stadi e per i loro soci qualunquisti, esiste, ed è fortissimo.

scritto da watergate
venerdì, 05 settembre 2008
alle 09:52

   La
galleria dei pagliacci da circo mascherati da tifosi di calcio è ricca
e variopinta come un museo di storia naturale, ma l’ultimo esemplare
arrivato e messo in mostra suscita più ribrezzo di un singolo dance di
Gigi D’Alessio. Non che non ci siamo abituati, beninteso. Una
delle peggiori eredità di Calciopoli è lo juventino incazzato col
mondo, che pensa di essere vittima di un complotto planetario ordito da
una personalità che prima giudicava demente e adesso reputa capace
delle peggiori diavolerie.
Non starò a rovinarvi il fegato con
della bassa sociologia. Gli juventini hanno sempre rubato e lo sanno
bene. Vivono questo dramma interiore scaricando le colpe sugli altri,
nonostante abbiano commesso le peggiori ruberie della storia dello
sport. Ora, aggiungete a questa già preoccupante paranoia un pizzico di
xenofobia, del sano orgoglio razzista e troverete pronto il nuovo
orrido esemplare che da tempo urla negli stadi e scaccola nei forum dei
principali siti italiani al grido di "Non Esiste Un Negro Italiano",
già sentito durante il Trofeo Tim. L’anti-interista razzistoide che non
vuole Balotelli in quanto nero e figlio di genitori ghanesi.

   La storia di Balotelli è da copertina, meravigliosa, indice di
quella integrazione che – a parer mio – arricchisce un popolo. Io ho le
mie idee politiche ma so per certo che uno dei migliori modi per
progredire è integrarsi, al di là delle naturali esigenze di sicurezza
che possiamo desiderare in un dato momento storico (e in particolari
condizioni… non entro nel merito della polemica politica, non è la
sede). Tuttavia, a Mario Balotelli alcuni tifosi anti-interisti (e
saranno sempre di più dato che l’ignoranza impregna più della saggezza)
vorrebbero impedire, da italiano come loro, di vestire la casacca della
Nazionale. Ecco alcuni commenti fatti passare dalla moderazione del sito della Gazzetta dello Sport.

Badboy83 (milanista e sardo come me): "Sei fortissimo ma non basta avere il cognome italiano per la maglia azzurra… sei ghanese onora quella maglia". Member 189076 (sembrerebbe di Arcore) ci pensa su e dichiara: non credo sia giusto portarlo in Nazionale.
Un tizio chiamato Bergarich ci va duro con lo stereotipo del calciatore
africano, mettendo in dubbio l’età di SuperMario (registrato
all’anagrafe di Palermo!):  "Credo che dovrebbero studiare il
fisico di questo calciatore. Non ho mai visto un calciatore con quel
fisico a 17 anni. Secondo me ha quasi 30 anni
". L’aggravante di proporre la cura in stile T4 non è niente male. Il Fenomeno27 ha paura del melting-pot, rispolverando un vecchio refrain caro a Le Pen: "Tra poco l’Italia assomiglierà alla Francia, che delusione!". E così via. Gente decerebrata che dice "purtroppo ci toccherà vederlo in Nazionale" si trova anche qui, altrove si fa ancora ricorso al colore della pelle per determinare la nazionalità. Qui pure c’è tanta spazzatura. Qua siamo al delirio. Siccome tutto il mondo è paese ne accomuna più la stupidità che l’intelligenza: non mancano i tifosi interisti "contrari" a SuperMario.

   Ecco, se c’è un segnale che la scuola italiana ha completamente
fallito il proprio obiettivo, negli ultimi 25 anni, è questo: degli
stupidi sgrammaticati che scrivono cose indicibili degne di peggior
causa.

da bauscia.splinder.com

Euro 2008: un altro punto di vista

 

Questo blog avrebbe molto da dire, ma chi ci scrive è malato di cialtronite cronica, quindi vi dovrete accontentare della sua estrema discontinuità. In questo momento vorremmo parlare degli Europei che arrivano, ma in effetti c’è chi lo farà in maniera più interessante di noi. Al massimo ci cimenteremo in valutazioni calcistiche, dato che quelle sociali e politiche hanno ampio spazio su un blog dedicato: euro08.noblogs.org

Stampate, diffondete, pensate!

Via i tifosi dagli stadi

 

Fenomeno curioso il calcio all’italiana: ogni tragedia diventa una scusa per un malcelato tentativo di peggiorare la situazione oppure per fare soldi. In altri tempi si sarebbe chiamato cinico opportunismo, mentre nel terzo millennio si chiama senso della cosa pubblica, in maniera a dire il vero piuttosto eufemistica. Quest’anno nella dodicesima giornata di andata e di ritorno (e poi si dice che sia il tredici a portare sfiga…) due tragedie hanno segnato il campionato di calcio italiano: all’andata in un autogrill un tifoso laziale viene ucciso dal proiettile sparato da un agente ad alzo zero, aizzato dall’isteria anti-ultrà e dalla sensazione diffusa tra gli operatori che contro i reati da stadio valga tutto e tutto venga giustificato dagli esperti del settore di fronte a opinione pubblica e politica; al ritorno in un autogrill un mezzo battibecco tra tifosi (al meglio) scatena il panico dell’autista di un autobus di tifosi bianconeri che investe (passandoci sopra con entrambi i treni di ruote) un tifoso del Parma. In entrambi i casi la risposta è: vietiamo le trasferte. Non importa se nel primo caso andrebbe vietato l’uso delle armi alle forze dell’ordine, o almeno garantito che i loro crimini venissero perseguiti con la stessa determinazione e pubblicità di quelli di altri settore della società italiana, e che nel secondo caso andrebbero incriminati per concorso morale i direttori delle principali testate giornalistiche e televisive italiane per l’isteria creata. Importa solo che si dia l’impressione di avere qualcosa da dire. Mentre a noi, che conoscevamo Matteo e non conoscevamo Gabriele, viene solo da rimanere in silenzio di fronte a morti assurde ed evitabili. 

Il vero problema è che nessuno ha il coraggio di guardare in faccia la realtà e di ammettere che il problema non sono le persone morte, ma la necessità del calcio di essere un bel business esente da imprevisti, degli stadi pieni sì, ma di marionette disposte ad applaudire tenuamente quando si segna un gol. Tanto i soldi arrivano dalla vendita di magliette di R9 e R10, e dai diritti televisivi. La miopia di questo ragionamento stupisce solo chi ci va allo stadio e chi le partite ama guardarle: senza calore umano, senza passione, non c’è calcio, ma solo un film (bello è tutto da vedere). Ma in Italia come al solito sarà troppo tardi quando qualcuno con un minimo di buon senso deciderà di prendere la parola. Tanto per ragionare a modo loro, basterebbe guardare nella tanto osannata Inghilterra: a parte il fatto che in Gran Bretagna si è intervenuti dopo tragedie immani individuandone le origini e proponendo soluzioni ai problemi specifici, non si è mai pensato che si dovesse avere uno stadio silenzioso ed ordinatamente noioso. Il problema in Inghilterra fu individuato nella fatiscenza degli impianti e nella scarsa possibilità di controllo: gli stadi furono rifatti da zero, e si implementò una rigida politica di controllo e prevenzione. Questo ha spostato gli scontri fuori dagli stadi, ma gli inglesi hanno deciso che stava loro bene di muovere il problema dallo sport alla criminalità ordinaria. E’ stata una scelta. In Italia non vediamo nessun intervento sugli impianti, strutture inadeguate, in cui tutti a cominciare dal presidente della Lega hanno mangiato miliardi del vecchio conio, sperando di mangiare ancora di più grazie all’Europeo 2012, fortunatamente sfumato dalle mani dei peggiori speculatori del Paese. In Italia non vediamo nessun intervento che cerchi di risolvere il problema del controllo negli stadi, ma solo la voglia di garantire alle forze dell’ordine maggiore agibilità nell’uso della forza (a caso di solito). In Italia vediamo tv e giornali che alimentano l’isteria ogni giorno, per vendere una inserzione in più, senza preoccuparsi di quanto quello che dicono produce nel popolo bue italico. 

L’unica soluzione a tutto questo è un po’ di buon senso, la misura di ciò che avviene nel mondo reale, lontano dai palchi e dai palcoscenici e dalle telecamere, e molto senso di responsabilità. Unito a un amore spassionato per il gioco del calcio e per tutto quello che rappresenta. Nessuno di quelli che sta in cima alla piramide che decide di questo sport gode di nessuna di queste caratteristiche: troppo chiusi nei propri palazzi per capire la realtà, troppo chiusi nei propri affari per capire il termine "buon senso", troppo moderni per capire il senso della parola responsabilità. Tanto paga sempre qualcun altro. Con la vita.

La Gloria ai Posteri

 

Il 28 febbraio 2008 come ogni giorno dell’anno cadevano numerosi anniversari: tra gli altri uno di particolare interesse per questo blog era quello della morte, avvenuta per arresto cardiaco, del giornalista Giorgio Tosatti. Ieri tutti i giornali gli dedicavano almeno una pagina intera della propria sezione sportiva, in particolare un corsivo di Fabio Monti sul Corriere della Sera, dove il giornalista scriveva ultimamente la sua colonna. Premetto che questo post non è adatto ai teneri di cuore, per cui armatevi del giusto cinismo.

La domanda da cui partiamo è semplicemente: perché nel ricordare una persona che è morta, con tutto il dovuto rispetto per i defunti e per i vivi che ne soffrono ancora, si deve falsare la verità? Fabio Monti poteva tranquillamente dire che gli mancava un collega e un amico, oppure raccontare con umana nostalgia la presenza di una persona cara scomparsa un anno prima. Era proprio necessario, per lui come per tutti gli altri, parlare del suo ruolo di giornalista, soprattutto dimenticandosi la grama figura che ne è uscita dalle intercettazioni degli ultimi scandali.

Lo diciamo subito per non incorrere in facili generalizzazioni: Giorgio Tosatti non era il peggiore tra i giornalisti sportivi, non era il più venduto né il più scandaloso nel suo asservimento a chi di volta in volta rappresentava il potere. Ma non era uno stinco di santo, e quindi beatificarlo post mortem ci sembra un’operazione poco corretta nei confronti di uno sport che appassiona milioni di persone. E’ certo però che Tosatti avesse un rapporto intimo con Moggi e con tutta la cricca di persone che stavano al vertice del potere calcistico fino al 2006 (dal 199x almeno tra l’altro, molte delle quali ancora in circolazione e del tutto impunite), e che non disdegnasse le relazioni con questa banda di abietti criminali pallonari. Allora per piacere non vendeteci l’immagine dell’opinionista integerrimo e di valore. Vendeteci l’immagine di un giornalista che come mille altri si è arrangiato e che in questi giorni se fosse ancora vivo sarebbe chiaramente nella posizione simile a quella del suo collega Mario Sconcerti, agitato come un saltimbanco per capire quale sia il nuovo padrone ma senza eccedere per potersi salvare in corner qualsiasi cosa accada. Di gente con la spina dorsale il giornalismo italiano è drammaticamente sprovvista (ma questo sarà argomento di un altro post).

PS: in un’altra delle intercettazioni che ho consultato per scrivere questo post, a onor del vero e a dimostrazione di come Tosatti non fosse certo il peggiore, ma uno che faceva parte abbastanza comodamente di salotti in cui il più pulito ha la scabbia, Pairetto e Moggi si lamentano proprio delle posizioni del giornalista sul sorteggio arbitrale puro (opinione meritoria che gli va riconosciuta), e del fatto che non riescano a posizionare in cima alla selezione degli arbitri qualcuno che "faccia sembrare tutto normale". Di chi stanno parlando secondo voi? Di quale foglia di fico dal grande talento truffaldino staranno mai discutendo i due schifosi? Indovinate? Ma proprio di Pierluigi Collina, attuale designatore. A pensare male si fa peccato ma ci si azzecca sempre (soprattutto in politica) e di conseguenza per capire come vanno ancora le cose basterebbe guardarsi un po’ intorno e scegliere con cura i bersagli contro cui lanciare strali, che raramente sono i più comodi per non ammettere i propri errori.

PPS: avevo scritto di più ma la sorte informatica oggi mi è avversa.