[repost] i tifosi genoani sul cosiddetto sciopero dei calciatori

[ Articolo originale su grifoni.org ]

Doveva succederci anche questa. Sopportare l’idea che un gruppo di giovanotti miliardari, con le loro luccicanti Ferrari e le mutande di Dolce e Gabbana, avessero l’alzata di ingegno di indire uno sciopero.Anzi, viene quasi un conato di nausea ad accostare la parola sciopero a persone che non hanno mai seriamente lavorato un giorno in vita propria.
E’ un insulto alla nostra benevolenza. Per noi che siamo dall’altra parte del vetro, che spendiamo denaro, tempo, energie, consumiamo ferie, impegnamo il nostro (poco) tempo libero per vedere 90 minuti di uno spettacolo che in più di una circostanza è al limite del decoroso, agli orari più improbabili, con le condizioni meteo più disparate, con biglietti sempre più cari, con i palinsesti televisivi che spadroneggiano su qualunque barlume di buon senso e costretti a sottoscrivere un’assurda ed inutile tessera per poter seguire la nostra squadra. Accolti in stadi paleolitici da agenti di pessimo umore a cui spesso prudono pure le mani.

Oltre a tutto questo, perfino l’astensione dal “lavoro” dei pedanti di professione ci toccherà sopportare. A noi che siamo operai cassaintegrati, ricercatori sui tetti, studenti che gridano per strada, famiglie che devono contare gli spiccioli prima di mettere al mondo dei figli, con debiti di 30 anni con la banca per comprare un piccolo appartamento in perIferia. Siamo noi, quelli che di tanto in tanto si vedono nei telegiornali (se siamo fortunati e qualcuno si degna di darci ascolto). Quelli che occupano l’Asinara pur di avere un piccolo cono di luce sulla propria condizione e sul proprio disagio.
E, quasi come una beffa, ci vediamo insultati da gente baciata dalla fortuna, i cui figli e pronipoti vivranno nell’agio e senza la minima preoccupazione economica, li vedremo usare uno strumento che è stato l’emblema della lotta di emancipazione dei più deboli, come se fosse per davvero un loro diritto.
E nemmeno ci interessa sapere se le loro istanze sono ragionevoli o sbagliate, se hanno ragione o hanno torto. Non ci interessa. Davvero vorremmo sapere se in una nazione stritolata dalla crisi economica,dove gli ultimi stanno andando alla deriva senza un salvagente che non sia la carità dei penultimi, si possa tollerare l’insolenza di chi vive in una torre d’avorio come se fosse normale, ineluttabile,dovuto. La nostra risposta, pensiamo, sia men che sottintesa in queste poche righe. Le quali, lo speriamo, servano a far abbassare lo sguardo di questi signori quando alla mattina si faranno la barba davanti allo specchio.

Con tutto il nostro biasimo vi gridiamo… VERGOGNATEVI!!!

La Tifoseria Organizzata del Genoa.

Il campionato più bello del mondo

E’ un grande leit motif delle discussione tra tifosi. “Ah, com’è bella la Premier Lìg!”. “Certo che come segnano in Liga, non segnano da nessuna parte!”. “Ma il campionato più bello del mondo” – manco a dirlo – “è il nostro, eh!”. E la domanda su quale sia il campionato più bello è una domanda legittima, anche per capire le dinamiche di investimenti e trasferimenti di calciatori. Ma la risposta mi pare tutt’altro che scontata. Perché il primo problema è definire il termine “bello”, una questione estetico-semantica che si perde nella notte dei tempi.

Forse bello vuol dire “fancy”, di moda. Se questo è il criterio la Premier League è chiaramente il luogo maggiormente attraente: più pubblicità, più soldi, più attenzione mondiale. Tutti vogliono stare in Inghilterra, e più ci vogliono stare, più altri ci vogliono andare. Un tempo (parliamo degli anni 80) era il campionato italiano a suscitare questa spirale di “hype”. Ma lo sviluppo di queste dinamiche è abbastanza tradizionale: dopo un po’ la moda passerà e il testimone (insieme al testimonial) passerà in altri Paesi. Onestamente mi pare un criterio poco condivisibile per definire il campionato “migliore”, anche se nella moderna società dell’apparire a tutti i costi potrebbe essere il principale motivo per cui la Premier viene vista come il top del calcio mondiale in questo momento.

Seguendo i valori di riferimento del Paese che Non c’è forse bello vuol dire “ricco”. E qui il discorso già è più intricato. Perché per ricco cosa intendiamo? Intendiamo con maggiori capacità di spesa sul mercato? Oppure con maggiori ricavi complessivi per le società? Perché non è scontato che sia la Premier League ad avere questa palma. E il contendente in questo caso non è certamente la Serie A o la Liga, ma la Bundesliga. Infatti se prendiamo i ricavi delle società è certamente il campionato tedesco quello economicamente più prospero, un risultato ottenuto alla tedesca: piani di medio-lungo termine, serietà organizzativa, pragmatismo assoluto delle soluzioni anche a scapito dei risultati nel breve termine. E io ho la sensazione che presto la Bundesliga diventerà oggetto di molte mode. Viceversa la Liga (se si eccettuano Real Madrid e Barcellona con ricavi da 400 e 350 milioni rispettivamente) è un campionato sull’orlo del fallimento per atteggiamenti decisamente spregiudicati avuti nel passato. La Serie A è un campionato già fallito e senza il decreto spalma debiti e interventi dei politici di una o dell’altra parte sarebbe già semi-dilettantistico da un po’. E pure la Premier non se la passa bene con debiti abnormi (in alcuni casi giustificati dai ricavi – Manchester United – in altri molto meno – Liverpool) e con spesso un rapporto tra monte ingaggi e ricavi fuori da ogni senso (Birmingham intorno al 99%, ma molte squadre medie sono ben oltre l’80%). Se il criterio è questo la pacchia sta per finire. E la Bundesliga aspetta le televisioni al varco.

Però anche questo termine a me non convince. Forse sono un po’ romantico, ma ci sono criteri maggiormente legati allo sport agonistico che apprezzo di più. Forse il campionato più bello è quello più “combattutto”. Cerchiamo di andare a vedere che cosa significa combattuto, perché anche questo è un termine controverso. Se per combattutto intendiamo dire che ogni partita presenta livelli di difficoltà comparabili (salvo head-to-tail, o testacoda che dir si voglia, diciamo) io penso che la Bundesliga e la Serie A siano decisamente più difficili di Liga e Premier League. E i risultati delle squadre di media entità nei confronti delle grandi e delle piccole nei confronti delle medie sono lì a dimostrarlo, e non solo in avvio di campionato dove i livelli di preparazione atletica e tattica sono estremamente disomogenei. In Premier League esiste il mito – distrutto solo dall’anticalcio dello Stoke City o quasi – che le piccole e le medie debbano giocarsela a viso aperto, con risultati da goleada spesso e volentieri. Nella Liga l’assenza del concetto di calcio difensivo fa sì che gli scontri con le squadre dalla decima o dodicesima posizione in giù siano delle formalità per tutti i team nella parte sinistra della classifica. Viceversa il tatticismo estremo della Serie A e il dinamismo giovanile estremo delle squadre tedesche livellano molto di più la situazione generale, rendendola decisamente più “combattuta”.

Ma se per “combattuto” si intende vario in chi vince e in chi perde il discorso è molto diverso. Qui emerge di nuovo la Bundesliga e la Premier League, oltre che a sorpresa – almeno negli ultimi anni – la Ligue 1 francese. In Italia negli ultimi cinque anni ha sempre vinto l’Inter, dietro la quale si sono sempre piazzate Milan e Roma (in assetto variabile) e una quarta squadra che però dall’anno prossimo non farà più la CL (peraltro meritatamente considerata la distanza compiuta dalle quarte classificate negli ultimi cinque anni in Europa). E anche andando più indietro è stato un duopolio Milan-Juve durato 20 anni. Lasciamo perdere in che contesto. In Spagna negli ultimi cinque anni ha vinto due volte il Real e tre volte il Barcellona. Dietro anche qui si sono piazzati sempre il Siviglia, e molto più raramente il Valencia o il Villareal. Viceversa in Francia a parte la parentesi eptennale del Lione hanno sempre vinto e tuttora vincono sempre squadre diverse. In Germania a parte la frequente presenza del Bayern Monaco al top negli ultimi cinque anni hanno vinto il campionato anche Wolfsburg e Stoccard, nonché il Werder Brema sette anni fa. La situazione forse più mediata, senza un livellamento con turnover al top altissimo, ma senza staticità totale, è forse quella della Premier League in cui le squadre di top sono quattro con due o tre outsider spesso determinanti: Chelsea, Manchester United, Liverpool, Arsenal sopra tutte. Tirando le somme se per bellezza si guarda la varietà delle squadre vittoriose la Ligue 1 e la Bundesliga risultano al momento le più interessanti, seguite subito dopo dalla Premier Ligue.

Ma ci sono anche altri termini per definire il bello. Per esempio bello potrebbe voler dire “giovane”, e anche in questo caso l’Italia e la Spagna sono fanalini di coda, ma anche la Premier League non è messa benissimo. Il campionato con il maggior equilibrio generazionale è certamente la Bundesliga. Subito seguita dalla Ligue 1. Non ho i dati sottomano, ma penso che a guardare le età dei giocatori in campo (non delle rose dove si fa in fretta ad inserire elementi delle giovanili che non vedranno mai il campo), si avrebbero delle brutte sorpese, non tanto dalla gerontocratica Italia, ma dalla tanto rimirata Premier.
Oppure si può pensare che bello voglia dire “divertente”, ma anche in questo caso il termine è difficile da delimitare. Per esempio per un vecchio trombone schiavo dell’ideologia come me un campionato dove la tattica è l’elemento predominante è un campionato divertentissimo, che mi permette di cercare la tattica, la strategia e l’organizzazione dietro ogni mossa, ma non è un valore universale. Per esempio per qualcuno con un temperamento più prono all’entusiasmo e all’estetica, forse un campionato come quello spagnolo dove si buttano tutti avanti con ampi spazi e abbondanza di occasioni da gol è più divertente, e quindi più bello. E poi ancora, per qualcuno che fa dell’agonismo e della fisicità una questione importante, vedere gente che corre avanti e indietro tutto il tempo e che non sta a fare sceneggiate per terra ogni due minuti, come nella Premier League, è molto più divertente che non i teatrini latini. Il termine quindi se declinato come “divertente” è veramente troppo aleatorio.

La domanda “qual è il campionato più bello” si dimostra essere il tipico falso argomento per tirare le discussioni avanti per sempre senza poter convenire su alcun criterio per concludere la diatriba. L’unica cosa che è certa è che un campionato fa emergere la squadra più continua in fortuna e risultati durante l’anno e che il valore statistico dei dettagli si riduce moltissimo in una competizione di lunga durata. Checché ne dica la propaganda del Presidente del Consiglio.

Newscientist: il tifo non ha effetto sulle vittorie in casa

 

Questo articolo è apparso sul sito di Newscientist. Devo dire che la ricerca (e la sua base scientifica) non mi convince molto, ma è utile per dare argomenti a chi vuole gli stadi sempre più vuoti (tanto è tutto uguale no?) e i palinsesti sempre più pieni. Sarà anche assurdo scientificamente attribuire un ruolo al tifo, ma il calcio alle volte è irrazionale passione. Sennò che gusto c’è?

I tifosi allo stadio non hanno effetto sulle vittorie in casa

Alcuni stadi hanno un effetto maggiore sul determinare le vittorie sportive in casa? Sembra di no, almeno nel calcio.

Molti sostengono che un tifo scatenato o stadi gremiti portano alcune squadre ad avere un vantaggio maggiore quando giocano in casa di altre con supporter meno indemoniat o impianti più piccoli. Andreas Heuer e Oliver Rubner dell’università di Münster in Germania hanno analizzato 12.000 incontri della Bundesliga tra il 1965 e il 2007. La differenza reti è stata usata come valutazione della resa della squadra, al posto delle vittorie dato che è chiaro che la prima dia una misura più precisa del vantaggio, dice Rubner.

Heuer e Rubner hanno confermato il fatto che le square in casa hanno un vantaggio sulle squadre che giocano in trasferta: la squadra di casa infatti segna 0.7 gol in più a partita della squadra ospite. Purtroppo però non hanno trovato una squadra che fosse migliore di altre in casa (www.arxiv.org/0803.0614).

Nonostante alcune squadra appaiano particolarmente forti nel loro stadio, questa supposizione è spesso basata da vittorie conseguite in un numero limitato di partite, scrive Rubner. Ogni  vantaggio del giocare in casa è scomparso nel momento in cui abbiamo esteso l’analisi a un numero infinito di partite. Questo fenomeno è analogo a quello di quando si nota una moneta cadere su una faccia più che su un’altra entro un certo numero di lanci. "Atrribuireste questo fenomeno all’effetto psicologico della persona che lancia la moneta?", si chiede Rubner.

Gallina vecchia fa buon brodo (the refereeporn immortality blues)

Ogni settimana ormai il calcio italiano vede come protagonista non tanto le imprese di uomini e squadre, di geni tattici o di virtuosi del tacco o della punta, ma le malefatte (o benefatte a seconda  di chi le guarda e le commenta) di quelle che un tempo venivano chiamate giacchette nere, e che oggi devono gioco-forza essere chiamate giacchette e basta. Sembra che dopo calciopoli e anni in cui nessuno si accorgeva dei macroscopici errori commessi da quegli essere umani troppo umani chiamati a regolare gli eventi di una delle macchine più remunerative dell’economia italiana, tutti improvvisamente siano coscienti che ogni partita può diventare terreno di conquista di ore e ore di polemiche intervallate dall’adeguato numero di sponsor e pubblicità. Soldi soldi soldi, per tutti anche per chi si lamenta.

Perché il punto non è se gli arbitri sbaglino più o meno, e a favore di chi, perché nel novero degli errori ci saranno alcuni più contenti una domenica che hanno di che rammaricarsi la domenica dopo, e sarebbe presuntuoso pretendere che noi su questo blog conosciamo veramente le hidden agenda della classe dirigente del calcio italiano: qualcuno ritiene che gli errori siano di un certo tipo per giustificare la linea difensiva in sede penale della triade e di molti altri che di calcio hanno mangiato in abbondanza negli scorsi decenni; qualcuno ritiene che serva a coprire lo scarso livello del calcio italiano; qualcuno ritiene che sia per favorire i propri avversari; qualcuno pensa che sia per adeguare il campionato agli equilibri di palazzo. Quanto ci sia di vero e di falso in queste dietrologie da bar sport è difficile dirlo e lasciamo volentieri a ognuno le sue convinzioni.

Una cosa è innegabile, però, e cioè che le discussioni sugli arbitri e un loro rendimento così scarso sono la soluzione e non il problema. Penserete a un ossimoro fatto per attirare l’attenzione, ma non è così. Perché se fossero il problema e si volesse cercare una soluzione non ci vorrebbe molta materia grigia per trovarla: repulisti di tutta la classe arbitrale con anche solo un mezzo dubbio rispetto alla propria eticità; arbitri professionisti; sorteggio integrale; eventualmente ausilio di strumenti tecnici per dirimere questioni fondamentali come i gol fantasma e le azioni salienti (secondo il modello di altri sport in cui l’arbitro può chiedere di rivedere una azione e decidere all’atto della visione dell’azione contestata); sanzioni più uniformi e severe a simulatori non solo in area (chi chiede l’uscita dal campo per motivi fisici non può rientrare prima di cinque minuti) oppure tempo effettivo (o qualcosa di simile). Il calcio diventerebbe improvvisamenete uno sport più corretto, meno controverso (o almeno in cui le decisioni vengono prese da qualcuno che se ne assume la responsabilità), anche se solo alla luce di interventi coercitivo/normativi volti a colmare una lacuna sportivo/culturale. Ma d’altronde questo è il calcio e la società moderna: poca etica e molta scena.

Invece gli arbitri non sono il problema, ma la soluzione per continuare a marciare sul mondo del calcio esattamente come prima, e forse anche meglio. Infatti in nome della necessità di salvare il calcio italiano dal tracollo a causa della mancanza di arbitri all’altezza si è potuto dimenticare che nei posti chiave del calcio italiano continuano a esserci le stesse persone e quindi gli stessi poteri – Carraro è più potente di prima, Moggi continua a controllare molta parte del mercato anche se un po’ più coperto, Matarrese dovrebbe essere il nuovo che verrà presto sostituito dal nuovissimo Galliani, Collina viene archiviato in tutta fretta per essere ripulito, lucidato ed eletto salvatore degli arbitri italiani nonostante le tante macchie della sua carriera. Inoltre si è potuto mettere sotto scacco le società, costrette ad accettare il ritorno di un pacifico status quo piuttosto che un caos magari foriero di scomode novità che toccassero gli equilibri faticosamente conquistati: così ogni domenica c’è chi gioca al lupo e chi all’agnello. Effetti collaterali graditi: l’ipertrofia delle trasmissioni televisive, l’ipotrofia del pubblico dal vivo frustrato dalla sensazione sempre più netta di fare parte di un presepe, l’esacerbarsi di epifenomeni dei momenti di massa della società italiana come "la violenza negli stadi" grazie ad astio e calciologia in provetta che fungono da perfetto carburante. E soprattutto: nessuna discussione su quanto nel calcio è rimasto uguale, su quanto ci sarebbe bisogno invece di ripensare un po’ tutto il senso di "calcio moderno", e sulla pulizia ancora necessaria a tutti i livelli.

Di fronte a tutto questo fortunatamente in molti si emozionano ancora a vedere una partita di calcio, e questo è l’unica speranza che ci rimane per sperare che qualcosa di genuino almeno in chi segue il calcio al di qua delle inferriate di bordo campo sia sopravvissuto nonostante le torture di questi anni. E’ un po’ come il mondo che ci circonda: è difficile credere che veramente qualcosa possa cambiare, ma c’è chi ancora lo spera. Magari su un rettangolo di 100×65 metri è più facile. O no?

Biscottini e Torte

La penultima giornata del campionato di serie A 2006/2007 come sempre riserva le usuali polemiche sulle cosiddette torte o biscotti: ovvero partite che finiscono in un mesto pareggio (o in un epico pareggio come nel caso di Empoli-Reggina) e che alla fine accontentano un po’ tutti, tranne ovviamente chi contava nei risultati sfavorevoli alle dirette concorrenti per restare in serie A. 

Tra questi ultimi spicca l’AD del Catania Lo Monaco che ha rilasciato dichiarazioni fiammeggianti nel dopo partita, scagliandosi contro tutti e tutto, e guadagnandosi l’epitaffio di uno degli allenatori pasticcieri: "si vede che il biscotto lo voleva fare lui all’ultima giornata". Il re è nudo, e soprattutto risulta particolarmente fastidioso l’atteggiamento di Lo Monaco, che afferma di voler lasciare il calcio per la seconda volta in quest’annata. La volta scorsa lo faceva con il viso contrito di chi è disperato per la morte di un poliziotto, disperazione scomparsa e rimpiazzata da voglia di rivalsa nel giro di meno di un mese.

Lo Monaco forse dovrebbe accettare la naturalezza dei biscotti, che sono forse la forma più pulita e naturale di "truffa" nel calcio: magari si fosse rimasti ai tempi in cui le combine erano un pareggio senza arte né parte all’ultima giornata. Inoltre dovrebbe accettare che se il Catania andrà in serie B è perché ha raggranellato si e no dieci punti nel girone di ritorno.

Lo Monaco (come Pulvirenti) rappresentano perfettamente il calcio moderno, caratterizzatato dalla tragedia facile e profondissima, quanto di breve durata,  e dalle vesti stracciate per le ingiustizie subite (al punto che i giocatori della Juventus insistono a chiamare ingiustizia la loro stagione in B, e a chiamarsi per telefono con padron Moggi).  Noi non ci stupiamo, ma pare che il mondo dei giornalisti sportivi invece sia perfettamente in linea con tutto e questo.

Bando alle ipocrisie: viva i tempi dei biscotti e delle torte.

 

The Day After

Cronaca in soggettiva della ripresa del campionato allo Stadio Olimpico di Roma:

strani giorni questi.
strani giorni per chi è abituato ad andare allo stadio dalla fine degli anni 70.
strani giorni per chi ha visto questo mondo cambiare, trasformarsi, chiudersi, alienarsi.
mi sveglio con la sensazione che non ho voglia di andarci.
mi capita sempre più spesso ma so bene che se rimanessi a casa sarebbe peggio. 
 

 

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