Il campionato più bello del mondo

E’ un grande leit motif delle discussione tra tifosi. “Ah, com’è bella la Premier Lìg!”. “Certo che come segnano in Liga, non segnano da nessuna parte!”. “Ma il campionato più bello del mondo” – manco a dirlo – “è il nostro, eh!”. E la domanda su quale sia il campionato più bello è una domanda legittima, anche per capire le dinamiche di investimenti e trasferimenti di calciatori. Ma la risposta mi pare tutt’altro che scontata. Perché il primo problema è definire il termine “bello”, una questione estetico-semantica che si perde nella notte dei tempi.

Forse bello vuol dire “fancy”, di moda. Se questo è il criterio la Premier League è chiaramente il luogo maggiormente attraente: più pubblicità, più soldi, più attenzione mondiale. Tutti vogliono stare in Inghilterra, e più ci vogliono stare, più altri ci vogliono andare. Un tempo (parliamo degli anni 80) era il campionato italiano a suscitare questa spirale di “hype”. Ma lo sviluppo di queste dinamiche è abbastanza tradizionale: dopo un po’ la moda passerà e il testimone (insieme al testimonial) passerà in altri Paesi. Onestamente mi pare un criterio poco condivisibile per definire il campionato “migliore”, anche se nella moderna società dell’apparire a tutti i costi potrebbe essere il principale motivo per cui la Premier viene vista come il top del calcio mondiale in questo momento.

Seguendo i valori di riferimento del Paese che Non c’è forse bello vuol dire “ricco”. E qui il discorso già è più intricato. Perché per ricco cosa intendiamo? Intendiamo con maggiori capacità di spesa sul mercato? Oppure con maggiori ricavi complessivi per le società? Perché non è scontato che sia la Premier League ad avere questa palma. E il contendente in questo caso non è certamente la Serie A o la Liga, ma la Bundesliga. Infatti se prendiamo i ricavi delle società è certamente il campionato tedesco quello economicamente più prospero, un risultato ottenuto alla tedesca: piani di medio-lungo termine, serietà organizzativa, pragmatismo assoluto delle soluzioni anche a scapito dei risultati nel breve termine. E io ho la sensazione che presto la Bundesliga diventerà oggetto di molte mode. Viceversa la Liga (se si eccettuano Real Madrid e Barcellona con ricavi da 400 e 350 milioni rispettivamente) è un campionato sull’orlo del fallimento per atteggiamenti decisamente spregiudicati avuti nel passato. La Serie A è un campionato già fallito e senza il decreto spalma debiti e interventi dei politici di una o dell’altra parte sarebbe già semi-dilettantistico da un po’. E pure la Premier non se la passa bene con debiti abnormi (in alcuni casi giustificati dai ricavi – Manchester United – in altri molto meno – Liverpool) e con spesso un rapporto tra monte ingaggi e ricavi fuori da ogni senso (Birmingham intorno al 99%, ma molte squadre medie sono ben oltre l’80%). Se il criterio è questo la pacchia sta per finire. E la Bundesliga aspetta le televisioni al varco.

Però anche questo termine a me non convince. Forse sono un po’ romantico, ma ci sono criteri maggiormente legati allo sport agonistico che apprezzo di più. Forse il campionato più bello è quello più “combattutto”. Cerchiamo di andare a vedere che cosa significa combattuto, perché anche questo è un termine controverso. Se per combattutto intendiamo dire che ogni partita presenta livelli di difficoltà comparabili (salvo head-to-tail, o testacoda che dir si voglia, diciamo) io penso che la Bundesliga e la Serie A siano decisamente più difficili di Liga e Premier League. E i risultati delle squadre di media entità nei confronti delle grandi e delle piccole nei confronti delle medie sono lì a dimostrarlo, e non solo in avvio di campionato dove i livelli di preparazione atletica e tattica sono estremamente disomogenei. In Premier League esiste il mito – distrutto solo dall’anticalcio dello Stoke City o quasi – che le piccole e le medie debbano giocarsela a viso aperto, con risultati da goleada spesso e volentieri. Nella Liga l’assenza del concetto di calcio difensivo fa sì che gli scontri con le squadre dalla decima o dodicesima posizione in giù siano delle formalità per tutti i team nella parte sinistra della classifica. Viceversa il tatticismo estremo della Serie A e il dinamismo giovanile estremo delle squadre tedesche livellano molto di più la situazione generale, rendendola decisamente più “combattuta”.

Ma se per “combattuto” si intende vario in chi vince e in chi perde il discorso è molto diverso. Qui emerge di nuovo la Bundesliga e la Premier League, oltre che a sorpresa – almeno negli ultimi anni – la Ligue 1 francese. In Italia negli ultimi cinque anni ha sempre vinto l’Inter, dietro la quale si sono sempre piazzate Milan e Roma (in assetto variabile) e una quarta squadra che però dall’anno prossimo non farà più la CL (peraltro meritatamente considerata la distanza compiuta dalle quarte classificate negli ultimi cinque anni in Europa). E anche andando più indietro è stato un duopolio Milan-Juve durato 20 anni. Lasciamo perdere in che contesto. In Spagna negli ultimi cinque anni ha vinto due volte il Real e tre volte il Barcellona. Dietro anche qui si sono piazzati sempre il Siviglia, e molto più raramente il Valencia o il Villareal. Viceversa in Francia a parte la parentesi eptennale del Lione hanno sempre vinto e tuttora vincono sempre squadre diverse. In Germania a parte la frequente presenza del Bayern Monaco al top negli ultimi cinque anni hanno vinto il campionato anche Wolfsburg e Stoccard, nonché il Werder Brema sette anni fa. La situazione forse più mediata, senza un livellamento con turnover al top altissimo, ma senza staticità totale, è forse quella della Premier League in cui le squadre di top sono quattro con due o tre outsider spesso determinanti: Chelsea, Manchester United, Liverpool, Arsenal sopra tutte. Tirando le somme se per bellezza si guarda la varietà delle squadre vittoriose la Ligue 1 e la Bundesliga risultano al momento le più interessanti, seguite subito dopo dalla Premier Ligue.

Ma ci sono anche altri termini per definire il bello. Per esempio bello potrebbe voler dire “giovane”, e anche in questo caso l’Italia e la Spagna sono fanalini di coda, ma anche la Premier League non è messa benissimo. Il campionato con il maggior equilibrio generazionale è certamente la Bundesliga. Subito seguita dalla Ligue 1. Non ho i dati sottomano, ma penso che a guardare le età dei giocatori in campo (non delle rose dove si fa in fretta ad inserire elementi delle giovanili che non vedranno mai il campo), si avrebbero delle brutte sorpese, non tanto dalla gerontocratica Italia, ma dalla tanto rimirata Premier.
Oppure si può pensare che bello voglia dire “divertente”, ma anche in questo caso il termine è difficile da delimitare. Per esempio per un vecchio trombone schiavo dell’ideologia come me un campionato dove la tattica è l’elemento predominante è un campionato divertentissimo, che mi permette di cercare la tattica, la strategia e l’organizzazione dietro ogni mossa, ma non è un valore universale. Per esempio per qualcuno con un temperamento più prono all’entusiasmo e all’estetica, forse un campionato come quello spagnolo dove si buttano tutti avanti con ampi spazi e abbondanza di occasioni da gol è più divertente, e quindi più bello. E poi ancora, per qualcuno che fa dell’agonismo e della fisicità una questione importante, vedere gente che corre avanti e indietro tutto il tempo e che non sta a fare sceneggiate per terra ogni due minuti, come nella Premier League, è molto più divertente che non i teatrini latini. Il termine quindi se declinato come “divertente” è veramente troppo aleatorio.

La domanda “qual è il campionato più bello” si dimostra essere il tipico falso argomento per tirare le discussioni avanti per sempre senza poter convenire su alcun criterio per concludere la diatriba. L’unica cosa che è certa è che un campionato fa emergere la squadra più continua in fortuna e risultati durante l’anno e che il valore statistico dei dettagli si riduce moltissimo in una competizione di lunga durata. Checché ne dica la propaganda del Presidente del Consiglio.

La prima all’olimpico nell’era della TdT

Domenica mi avvicino per la prima volta allo stadio dopo l’avvento della TdT. Arrivo di buonora, col mio socio che mi aspettava con le due tribune in mano che aveva rimediato gratis. Fino all’anno scorso non avevamo mai attinto a questa risorsa di cui dispone: eravamo tifosi di curva e là andavamo, nonostante pagassimo per non vederla.
Da quest’anno no. Non siamo più abbonati a causa di questa tessera/cartadicredito e dunque qualche volta ce ne andremo in tribuna per risparmiare qualche soldo ma sopratutto per non darli alla nostra infame società. Continue reading “La prima all’olimpico nell’era della TdT”

Demagogia familiare

Strano paese l’Italia. Ogni riforma vede al centro “la famiglia”, dalla scuola allo stadio passando per il lavoro, il welfare, etc etc.
Uno dei motivi dell’introduzione della fantastica Carta di Credito ops Tessera del Tifoso è lo slogan “RIPORTARE LE FAMIGLIE ALLO STADIO”.
Essì perché a causa di quegli zozzoni e cattivoni degli ultras/tifosi di curva, le famiglie sono terrorizzate dal portare i bambini allo stadio.
Ma siamo sicuri che non che è tutta colpa dei “violenti”? Sicuri sicuri che ad esempio impianti inadeguati, biglietti nominali, assenza dei botteghini allo stadio e CARO PREZZI non c’entrano niente?
Lo sapete quanto costa per una famiglia andare allo stadio?
Ma poi qual è la famiglia? Trattandosi di calcio, un padre più un figlio, visto che le donne NON amano il pallone? Continue reading “Demagogia familiare”

Lavoratori? Prrrrrrr! A volte sì, a volte no, se famo du’ spaghi?

E’ fin troppo facile accodarsi al populismo tanto di moda nel Paese che Non c’é e dire che chi guadagna milioni non ha diritto di scioperare, ma questa affermazione non rispecchia per intero il mio pensiero. D’altro canto per me è evidente che i lavoratori non sono tutti uguali e che quello che ha senso pretendere da un AD da 9 milioni di euro l’anno non è quello che si può chiedere a chi prende 800 euro al mese. Allora, l’approccio migliore per valutare il minacciato sciopero dei calciatori del 25-26 settembre è quello di analizzare i punti della contesa e cercare di farsi un’opinione propria su tutta la questione, prima di decidere se la mobilitazione merita o meno la nostra solidarietà.

Riprendo i punti uno per uno dall’edizione odierna della Gazzetta (ovviamente la mia valutazione si basa su quel poco che conosco del contratto nazionale e sulla sintesi estrema presente sul giornale milanese, per cui è suscettibile di evoluzione), ricordando che la questione riguarda solo i contratti di A, anche se Lucarelli ha furbamente ricordato che quello che succederà influirà anche sui contratti delle leghe inferiori, un po’ come le scelte della fiat su Melfi determineranno a pioggia un bel po’ di cambiamenti in tutte le imprese nel paese, più nel male che nel bene:

(1) Per la Lega deve essere flessibile, con i soldi in gran parte legati ai risultati, l’Aic accetta la parte variabile solo per il 50%.

Questo è sempre stato un mio cavallo di battaglia. Considerato il regime privilegiato dei calciatori in termini di emolumenti e le cifre allucinanti che percepiscono annualmente (la media per un calciatore di serie A è 1,3 milioni di euro all’anno), chiedere che ci sia un meccanismo per contenere i costi a fronte di performance scadenti tanto quando massimizzare il reddito in caso di buone stagioni mi pare necessario. Sia per riequilibrare un pochino la bilancia a favore delle società, ormai da tempo ostaggio delle bizze dei giocatori e dei taglieggi dei loro agenti, sia per stimolare i calciatori a fare al meglio quello che sono pagati per fare. Mi pare che un accordo sul 50% fisso massimo e il resto variabile, come richiesto dall’AIC (anziché qualcosa tipo 20%-30% fissi e resto variabile) sia ampiamente raggiungibile. Anche considerato che ora la percentuale è 75%-80% fisso e resto variabile. E la cosa avrebbe un innegabile vantaggio anche a livello del famigerato Fair Play Finanziario, permettendo di contenere molto il monte ingaggi (costo fisso considerato nel calcolo del FPF) e di variare molto la parte variabile degli emolumenti.

(2) Per la Lega il calciatore deve fare soltanto il calciatore, per l’Aic deve restare libero di decidere cosa fare fuori orario calcio.

Su questo storco ampiamente il naso. Da altre fonti non si capisce se la richiesta di “esclusiva” della Lega riguardi ogni attività o attività cosiddette “concorrenti”, anche se a questo punto andrebbe definito quali sono. Se la richiesta di non svolgere attività concorrenti mi pare ormai un classico soprattutto nei rapporti di lavoro lautamente remunerati (ma non solo, si pensi agli NDA che ti chiedono di firmare in qualsiasi azienda del settore tecnologico o farmaceutico anche se sei un impiegato in fondo alla scala gerarchica), la richiesta di non svolgere alcuna attività mi pare decisamente lesiva della fondamentale libertà da parte delle persone, quale che sia il loro reddito, di fare un po’ il cazzo che gli pare. Questo punto lo trovo controverso, ma penso che sarei d’accordo con la richiesta di non fare attività concorrenti, definendole in maniera precisa in sede di contratto però.

(3) La Lega chiede codici ferrei di condotta ed etica anche fuori dal campo, l’Aic è per mantenere libertà assoluta nel tempo libero.

Su questo sto con la Lega. Grossa visibilità comporta grossa responsabilità: io mi sarei anche un po’ rotto le palle di gente che dà il cattivo esempio. Ovviamente bisognerebbe guardare cosa contiene il codice deontologico del calciatore, ma in generale penso che un pochino più di integrità soprattutto in quei lavori che prevedono grande attenzione dell’opinione pubblica sarebbe auspicabile. Per mia indole se gli operai fossero pagati 5000 euro al mese mi risulterebbe più comprensibile chiedergli un atteggiamento rigoroso sul lavoro: se mi paghi quattro lire, pretendi un impegno da quattro lire. Diciamo che non mi sforzerò. Ovviamente non sono a favore di un irrigidimento che vada a decidere che cosa uno può fare o non fare, ma solo una richiesta di tutela del bene che viene pagato caro (anche dai tifosi). D’altronde avremmo anche un aspetto positivo: i calciatori, e forse molti che li seguono come semidei, si renderebbero conto che esistono cose che un uomo fa e cose che un uomo non fa, e che esistono i limiti alla propria voglia di fare tutto quello che ci passa per la testa anche passando sopra la pelle altrui.

(4) Le società chiedono che le cure dipendano esclusivamente da specialisti di fiducia del club, i giocatori vogliono restare liberi di scelta facendo pagare al club.

La chiave del punto mi pare: “facendo pagare al club”. Secondo me il diritto alla salute è inalienabile, ma d’altro canto è difficile che una società scelga specialisti che rompono i loro beni più preziosi (i calciatori). Secondo me andrebbe stabilito un tariffario dei tipi di intervento e tutto ciò che costa di più di tale tariffario è a carico del calciatore, che se giustamente vuole un super esperto che paga il doppio deve pagare la differenza. In alternativa al tariffario: esplicitare nel contratto che la cifra eccedente i costi preventivati dagli esperti medici di fiducia del club sono a carico del calciatore. Un po’ come nella sanità pubblica: io ho l’ASL, che costa poco. Se voglio andare nella clinica privata, un pezzo di servizio lo copre il ticket, il resto lo copro io a seconda di che livello vado cercando. Certo poi nella sanità pubblica c’è tutto un altro discorso da fare sui tempi e sulle mostruosità che il passaggio alla sanità privata ha generato (su cui non sono d’accordo, se non si fosse capito). Ma che i calciatori pretendano di andare dagli amici propri e far pagare il club, magari una cifra doppia rispetto alle strutture collegate alla società, mi pare francamente una richiesta un po’ fuori dal mondo. E che non trova riscontro negli altri regimi contrattuali in Italia.

(5) Sanzioni automatiche per i club in caso di mancanze classiche, l’Aic vuole restino di volta in volta decise dal collegio arbitrale.

Questo punto francamente non vedo il perché il collegio arbitrale non possa andare bene. Casomai stilerei una listino delle multe a cui il collegio arbitrale possa riferirsi (ma mi pare ci sia già). Mi pare un punto che messo giù così non esplicita bene la differenza con il regime attuale. Sospenderei il giudizio.

(6) La lega vuole riformare il collegio arbitrale con un presidente esterno al calcio, l’Aic insiste per non toccarlo, con presidente sorteggiato tra quelli designati da Lega e Aic.

Sull’arbitrato è in corso una discussione molto intensa anche nel mondo del lavoro “ordinario”. La presenza di un presidente neutro secondo me è elemento di garanzia in un collegio arbitrale. Questo vale in generale e vale anche in particolare nel mondo del calcio. Una volta accettato l’arbitrato per una serie di questioni, senza la presenza di un esterno non vedo come possa essere equo il giudizio.

(7) Per la Lega il tecnico deve avere la possibilità di decidere di far allenare anche in più gruppi, l’Aic è per mantenere il gruppo unico.

Anche su questo punto il desiderio dell’Aic mi pare difficilmente condivisibile. Nei margini del fatto che uno deve potersi allenare, non si capisce perché si debbano porre dei paletti ai metodi di allenamento. E se un gruppo di giocatori non fa più parte del progetto della società, fatto salvo che devono poter usare le strutture per tenersi in forma e avere ancora mercato, non si capisce perché non possano allenarsi a parte.

(8) La Lega chiede che un giocatore non possa rifiutare il trasferimento ad un club di stessa qualità e con soldi garantiti. Se rifiuta, risoluzione del contratto ma pagamento del 50% dell’emolumento e libertà di firmare con chi vuole. Per l’Aic è reintroduzione del vincolo.

Questo è certamente il punto più controverso. Ob torto collo se mi chiedessero di scegliere una posizione, quella della Lega mi pare paragonabile al ricatto di Marchionne. Un contratto è un contratto: non puoi obbligarmi a rescinderlo se non voglio, a meno che tu non mi offra qualcosa. Se riequilibro i contratti in termini di emolumenti, sarà compito della società fare valutazioni accorte. Se faccio un quinquennale a un 35enne non è che poi mi posso stupire che non se ne voglia andare prima. Se il quinquennale prevede una parte fissa contenuta, la cosa pesa relativamente sui bilanci e mi posso permettere di tenere il calciatore senza troppe menate. D’altronde la mediazione offerta di pagare il 50% degli stipendi rimasti come buonauscita e di lasciare il cartellino in mano al giocatore mi pare interessante: per molti giocatori e per molte società salverebbe capra e cavoli. Quindi diciamo che l’obbligo di accettare il trasferimento a parità di condizioni con annessa compensazione in caso di rifiuto potrebbe essere una strada da percorrere per trovare la giusta mediazione. D’altronde il diverso regime di tassazione delle buoneuscite consentirebbe già di percorrere questa strada, ma spesso le società preferiscono aspettare e vedere di trovare un acquirente più gradito l’anno successivo.

In generale l’argomento di come concludere un rapporto di lavoro non soddisfacente è il grande equivoco grazie al quale si è distrutto il mercato del lavoro e il futuro di almeno un paio di generazioni in Italia (e non solo): il punto cruciale è sempre stato come rendere più equo il processo di licenziamente bilanciando diritti del lavoratore e necessità delle imprese, ma anziché affrontare subito questo punto, prima si è voluti passare attraverso una flessibilizzazione totale del mercato del lavoro, alimentando un circolo vizioso di scontro e incomprensioni tra chi lavora e chi paga il lavoro guadagnandoci. Forse se dal lontano 1992 si fosse affrontato solo questo punto, gran parte dei diritti dei lavoratori sarebbero ancora lì. Forse adesso la parola flessibilità non sarebbe una patina ipocrita intorno alla parola precarietà.

Perché il punto è tutto qui. Equiparare i lavoratori “ordinari” che percepiscono 800-1000 euro al mese a chi ne percepisce 100 volte di più non è un giochino che paga. Perché non è uguale dover fare i conti per arrivare alla fine del mese e dover scegliere se prendersi una macchina da 60 o da 120 mila euro. Non è uguale manco per il cazzo.

Il problema è sempre il solito. Dipende dal nostro punto di vista. Nel mondo del calcio io penso che il peso delle società rispetto a quello di calciatori e agenti è troppo piccolo, e penso che questo alimenti in maniera per nulla virtuosa il mondo affaristico del pallone. Penso che sia necessario – da tifoso forse – che le società possano farsi valere soprattutto nei casi in cui i calciatori si ritrovano a fare i pensionati milionari, fregandosene di quanto valga emotivamente e sportivamente il loro lavoro per milioni di persone. Penso ovviamente che questo non possa andare in contrasto con la libertà delle persone di fare quello che vogliono e di esprimere le loro opinioni. Ma non mi sembra che nella bozza degli otto punti ci siano (a parte un paio di casi) elementi così draconiani come l’AIC vorrebbe far credere.

Trovo poi francamente insopportabile e ipocrita che tutti sostengano a gran voce le mille schifezze perpetrate nel nome della flessibilità sulla pelle dei lavoratori “ordinari”, costretti a vivere ogni anno l’odissea della ricerca di un lavoro a poche centinaia di euro al mese, nel disperato tentativo settimanale di far quadrare i conti, con la prospettiva di essere presto completamente tagliati fuori dal mercato del lavoro e senza alcuna tutela per garantirsi una vita dignitosa. E che poi nel caso dei calciatori si faccia i paladini dello Statuto dei Lavoratori. Come ho detto. Nel mondo del lavoro usciamo dall’empasse solo se teniamo la barra a dritta sulle cose importanti e trattiamo su quelle ragionevoli. Nel passato si sono già commessi errori: l’ingessamento del mercato del lavoro in Italia è stato a lungo tempo una realtà. Adesso in molti si sono accorti che le cure erano peggio della malattia e che la totale deregulation rispetto ai diritti dei lavoratori ha creato una schiera di giovani e meno giovani che difficilmente si lasceranno coinvolgere nel progetto dell’azienda o del datore di lavoro, e che più facilmente cercheranno di fregare lui o lei come sono stati derubati loro del proprio futuro. Forse bastava tenere i regimi contrattuali com’erano e puntare al problema vero: riformare le forme e i modi e i limiti con cui concludere un rapporto di lavoro.

Anche nel caso dello scontro AIC-Lega mi pare che il punto nodale sia tutto lì. Perché per il resto è difficile trovare un punto in cui trovarsi d’accordo con i “milionari del pallone”. Spero di aver chiarito perché secondo me lo sciopero dei calciatori è un calcio in faccia alla miseria, al di là del populismo facile con cui viene tacciata anche giustamente questa posizione.

[Repost] Maroni e la tessera contro i tifosi. Per bene.

 

[questa della "tessera del tifoso" e’ una tale porcata fascistoide che ha smosso l’intestino pure a gianni mura, che non ha mai mostrato particolare simpatia verso ultras e tifoserie piu’ o meno "calde"…]

Occuparsi di sport, di calcio in particolare, ha i suoi lati positivi. Per esempio, potrei rivolgermi al ministro Maroni a proposito della sua direttiva sulle trasferte dei tifosi ignorando altre e più drammatiche trasferte sul Canale di Sicilia. Potrei ma non posso. Solo due considerazioni. E’ ben strano l´atteggiamento di molti leghisti. Si propongono come i più accaniti difensori dei valori dell´Occidente cristiano e appena qualche vescovo o qualche prete dice qualcosa che non gli torna lo mandano brutalmente a scopare il mare (è un modo dire milanese, va inteso come ramazzare l´oceano e, in greco, farebbe parte degli adùnata). Poi (prima regola: negare comunque, o almeno mettere in dubbio) è piuttosto atroce il loro far di conto. I 5 vivi dicono che erano in 73, morti recuperati 14 (vado a memoria). E fanno 19, dove sono gli altri 54? Come se il mare fosse un bancomat, una cassetta di sicurezza, ancora un po’ e gli si chiede la ricevuta. Ma si sa che i conti devono tornare (a casa loro anche loro, così imparano).

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[Calcio Metafora] L’Italia è in Europa

Sui libri di storia di solito c’è
scritto “si respirava un clima generale di paura e odio”. Sui
giornali sportivi si accenna soltanto a incroci pericolosi e retate
dei birri (europei) contro i cattivoni nazi. Poi fine, che il calcio
ci deve fare rilassare. In realtà però questo inizio di
Europeo, oltre a fornire spettacoli squallidi (vedi Romania Francia)
ha dato in pieno l’idea di cosa significhi sentirsi in Europa. Si sa
che noi italiani quando facciamo le cose le facciamo per bene. Siamo
in grado, di solito, di capire da che parte tira il vento e remare
immediatamente in quella direzione. Anche prima di altri. E allora la
barbarie italiana non sembra stupirci, dando un occhio a quello che
gira intorno all’Europeo di calcio.

Calcisticamente parlando,
ad esempio, vedere i polacchi contro i tedeschi, si fa presto a
decidere per chi tifare. I panzer ad ogni corsetta o passaggio
sembrano urlare Anschluss. Ad ogni cross, sembrano marciare
in migliaia, uniti e compatti a riempire aree di rigore come fossero
piazze. Poi quella fascia nera sulla maglietta, che non preannuncia
niente di buono. Invece loro i polacchi, hanno la maglietta rossa.
Anche se il brand è Puma, lo stesso dell’Italia, della
Svizzera, dell’Austria (tutte perdenti: porta mica sfiga?) sembra una
di quelle divise delle squadre dell’est dei pre Ottanta. Strette e un
po’ sfigate. Sarà quella scritta a destra, Polska e
quel baffetto dietro. Molto Goodbye Lenin. Poi dopo 5 minuti li
infila proprio lui, Podolsky, il centravanti polacco (ma che gioca
con la Germania) che gli servirebbe, per aiutare il suo connazionale
Smolarek, occhi spenti e fisico sfigato: sembra appena uscito di
nascosto da un corso di marxismo per andare a pregare sulla tomba di
Woitila.

E invece il panzer acquisito ne mette dentro
un’altra e fa la faccia triste. Qualcuno pensa: hai fatto gol,
esulta! Se sei così triste potevi pensarci prima e scegliere
di giocare con i tuoi fratelli polacchi. La pensa così un ex
ministro nazionalista polacco: via la cittadinanza a quel bastardo!
Ma non solo. I tedeschi sono stati zitti, dopo, ma anche prima:
quando un quotidiano polacco ha mostrato l’immagine del mister
polacco (che polacco non è) tenere tra le mani lo scalpo di
Ballack e del tecnico tedesco. Agghiacciante e perfetto: le due teste
penzolanti avevano gli occhi chiusi. Quando si dice l’attenzione ai
dettagli. E finisci che godi alla doppietta del polacco tedesco. Ben
vi sta. E poi siete la terra del Papa che ha sconfitto il comunismo:
non ve lo perdoneremo mai.

Ognuno quindi si incita e aizza a
proprio modo, in un clima che viene da rimpiangere quelle belle
gradinate carioca o africane che si vedono ai mondiali. E’ la vecchia
Europa che annega nella sua merda, invece, quella che vediamo nel suo
riflesso calcistico e di tifo.

Per caricarsi prima delle
partite Materazzi – simbolo della perfidia e della cattiveria
calcistica – aveva detto di ascoltare Notti Magiche, innocuo, mi
pare. Bilic, mister della Croazia, invece intona canti nazisti degli
ustascia e pretende che i suoi giocatori cantino insieme a lui. La
cosa grave non è la scelta di Bilic. E’ che tutti i giocatori
cantano. E per non farli sentire soli, la stessa canzone (una hit
nazi croata) la cantano anche i loro tifosi. Se si aggiungono i nazi
tedeschi, i nazi austriaci e i consueti tricolori littorici italiani,
quel solito nasino all’insù dei francesi e gli inglesi che non
ci sono ma che decidono che Modric (lo conoscete?) è il quinto
– o il quarto e comunque viene prima di Ibra, per dire – migliore
giocatore europeo solo perché ha fatto fuori loro, dobbiamo
sperare davvero che passino questi vecchi europei e arrivino i
mondiali con altre civiltà che si affacceranno allo stadio e
ci diranno: fate proprio cagare, europei!

[Calcio metafora] Donadoni e la memoria

Italia-Olanda 0-3

Siamo
un paese senza memoria, in cui i colpi bassi arrivano anche da quei
pochi uomini che decidiamo di supportare. Perfino nel calcio,
passatempo godurioso che seguiamo ormai senza passione, ma con
attenzione e curiosità tattica immutata. E così
Donadoni da simpatico diventa una delle nuove cause perse, mettendo
in campo – all’esordio dell’Europeo – una squadra che ha ricordato il
Genoa all’esordio in A: 0-3 dal Milan e l’idea che uomini e
allenatore fossero vagamente allo sbaraglio nella competizione da
affrontare. Non di categoria, per dire.




Si diceva della
memoria: non ci ricordiamo le leggi razziali e Donadoni non ricorda
il campionato appena concluso. O abusa di erba (perdita della memoria
breve) o anche lui è vittima della presunzione tutta
sacchiana. Quello che pensava di trasformare un bomber (Signori) in
un difensore, tanto per intenderci. Quello che pensava di avere
inventato il calcio, anche.
 
Quali sono stati i segnali del
recente campionato? Che il Milan è cotto. Che il Palermo ha la
terza peggiore difesa del campionato. Che Materazzi è
inguardabile. Che Camoranesi ha fatto un’annata agghiacciante.


Ieri
contro l’Olanda l’Italia ha schierato: il centrocampo del Milan
(mentre i tonici romanisti Perrotta, De Rossi e Aquilani si
sbaciucchiavano con le mogli e giocavano a nascondino con i figli,
tanto non sarebbero mai entrati), Materazzi, Barzagli e Camoranesi
(con Cassano in panchina. E se un genoano urla al sacrilegio, ci sarà
un motivo!). Perché? Mistero.




E ancora. Come diceva il
maestro Brera, i nostri successi sono sempre arrivati quando abbiamo
giocato seguendo antropologiche regole applicate al calcio. Che paese
è l’Italia? Un paese di carogne, di pecoroni, di meschini,
ignavi, gente senza coraggio, timorosa e forte solo con i deboli
, che
dà il meglio (o il peggio a seconda della visuale) quando
scatta l’emergenza. Ed ecco i furbetti, l’astuzia, il “dimmelo tu
che te lo dico io”
. Tradotto in calcio: dietro a fare finta di
morire piangendo e invocando Padre Pio e quando meno te lo aspetti
ecco la furbata (cadute, falletti e contropiede) e bestemmia come
esultanza. Siamo così.




Invece Donadoni sceglie il
tridente. Però, forse per rispetto delle nostre
caratteristiche storiche, o per paura dei giornalaia allenatori, lo
maschera: e così Di Natale e Camoranesi seguono i folletti
olandesi posti tra le linee (Snejder e Van Der Vart) e ballano in
continuazione, senza difendere e senza avere il pelo per l’attacco,
sbilanciando una squadra che a tratti è apparsa più in
balia
di se stessa che non degli avversari.




Ora a questo
punto contro i rumeni è il dramma sportivo. Preferiamo un
successo di Mutu e compagni che minimamente vendichi le angherie che
sopportano i loro connazionali in Italia, o in fondo il calcio non è
la politica e quindi auguriamoci di asfaltarli e andare avanti,
almeno mantiene un po’ di interesse questo Europeo che, se non ci
fossimo stati noi a beccare tre pere, sarebbe uno dei più
noiosi, insipidi e meno interessanti della storia?


Gallina vecchia fa buon brodo (the refereeporn immortality blues)

Ogni settimana ormai il calcio italiano vede come protagonista non tanto le imprese di uomini e squadre, di geni tattici o di virtuosi del tacco o della punta, ma le malefatte (o benefatte a seconda  di chi le guarda e le commenta) di quelle che un tempo venivano chiamate giacchette nere, e che oggi devono gioco-forza essere chiamate giacchette e basta. Sembra che dopo calciopoli e anni in cui nessuno si accorgeva dei macroscopici errori commessi da quegli essere umani troppo umani chiamati a regolare gli eventi di una delle macchine più remunerative dell’economia italiana, tutti improvvisamente siano coscienti che ogni partita può diventare terreno di conquista di ore e ore di polemiche intervallate dall’adeguato numero di sponsor e pubblicità. Soldi soldi soldi, per tutti anche per chi si lamenta.

Perché il punto non è se gli arbitri sbaglino più o meno, e a favore di chi, perché nel novero degli errori ci saranno alcuni più contenti una domenica che hanno di che rammaricarsi la domenica dopo, e sarebbe presuntuoso pretendere che noi su questo blog conosciamo veramente le hidden agenda della classe dirigente del calcio italiano: qualcuno ritiene che gli errori siano di un certo tipo per giustificare la linea difensiva in sede penale della triade e di molti altri che di calcio hanno mangiato in abbondanza negli scorsi decenni; qualcuno ritiene che serva a coprire lo scarso livello del calcio italiano; qualcuno ritiene che sia per favorire i propri avversari; qualcuno pensa che sia per adeguare il campionato agli equilibri di palazzo. Quanto ci sia di vero e di falso in queste dietrologie da bar sport è difficile dirlo e lasciamo volentieri a ognuno le sue convinzioni.

Una cosa è innegabile, però, e cioè che le discussioni sugli arbitri e un loro rendimento così scarso sono la soluzione e non il problema. Penserete a un ossimoro fatto per attirare l’attenzione, ma non è così. Perché se fossero il problema e si volesse cercare una soluzione non ci vorrebbe molta materia grigia per trovarla: repulisti di tutta la classe arbitrale con anche solo un mezzo dubbio rispetto alla propria eticità; arbitri professionisti; sorteggio integrale; eventualmente ausilio di strumenti tecnici per dirimere questioni fondamentali come i gol fantasma e le azioni salienti (secondo il modello di altri sport in cui l’arbitro può chiedere di rivedere una azione e decidere all’atto della visione dell’azione contestata); sanzioni più uniformi e severe a simulatori non solo in area (chi chiede l’uscita dal campo per motivi fisici non può rientrare prima di cinque minuti) oppure tempo effettivo (o qualcosa di simile). Il calcio diventerebbe improvvisamenete uno sport più corretto, meno controverso (o almeno in cui le decisioni vengono prese da qualcuno che se ne assume la responsabilità), anche se solo alla luce di interventi coercitivo/normativi volti a colmare una lacuna sportivo/culturale. Ma d’altronde questo è il calcio e la società moderna: poca etica e molta scena.

Invece gli arbitri non sono il problema, ma la soluzione per continuare a marciare sul mondo del calcio esattamente come prima, e forse anche meglio. Infatti in nome della necessità di salvare il calcio italiano dal tracollo a causa della mancanza di arbitri all’altezza si è potuto dimenticare che nei posti chiave del calcio italiano continuano a esserci le stesse persone e quindi gli stessi poteri – Carraro è più potente di prima, Moggi continua a controllare molta parte del mercato anche se un po’ più coperto, Matarrese dovrebbe essere il nuovo che verrà presto sostituito dal nuovissimo Galliani, Collina viene archiviato in tutta fretta per essere ripulito, lucidato ed eletto salvatore degli arbitri italiani nonostante le tante macchie della sua carriera. Inoltre si è potuto mettere sotto scacco le società, costrette ad accettare il ritorno di un pacifico status quo piuttosto che un caos magari foriero di scomode novità che toccassero gli equilibri faticosamente conquistati: così ogni domenica c’è chi gioca al lupo e chi all’agnello. Effetti collaterali graditi: l’ipertrofia delle trasmissioni televisive, l’ipotrofia del pubblico dal vivo frustrato dalla sensazione sempre più netta di fare parte di un presepe, l’esacerbarsi di epifenomeni dei momenti di massa della società italiana come "la violenza negli stadi" grazie ad astio e calciologia in provetta che fungono da perfetto carburante. E soprattutto: nessuna discussione su quanto nel calcio è rimasto uguale, su quanto ci sarebbe bisogno invece di ripensare un po’ tutto il senso di "calcio moderno", e sulla pulizia ancora necessaria a tutti i livelli.

Di fronte a tutto questo fortunatamente in molti si emozionano ancora a vedere una partita di calcio, e questo è l’unica speranza che ci rimane per sperare che qualcosa di genuino almeno in chi segue il calcio al di qua delle inferriate di bordo campo sia sopravvissuto nonostante le torture di questi anni. E’ un po’ come il mondo che ci circonda: è difficile credere che veramente qualcosa possa cambiare, ma c’è chi ancora lo spera. Magari su un rettangolo di 100×65 metri è più facile. O no?

Biscottini e Torte

La penultima giornata del campionato di serie A 2006/2007 come sempre riserva le usuali polemiche sulle cosiddette torte o biscotti: ovvero partite che finiscono in un mesto pareggio (o in un epico pareggio come nel caso di Empoli-Reggina) e che alla fine accontentano un po’ tutti, tranne ovviamente chi contava nei risultati sfavorevoli alle dirette concorrenti per restare in serie A. 

Tra questi ultimi spicca l’AD del Catania Lo Monaco che ha rilasciato dichiarazioni fiammeggianti nel dopo partita, scagliandosi contro tutti e tutto, e guadagnandosi l’epitaffio di uno degli allenatori pasticcieri: "si vede che il biscotto lo voleva fare lui all’ultima giornata". Il re è nudo, e soprattutto risulta particolarmente fastidioso l’atteggiamento di Lo Monaco, che afferma di voler lasciare il calcio per la seconda volta in quest’annata. La volta scorsa lo faceva con il viso contrito di chi è disperato per la morte di un poliziotto, disperazione scomparsa e rimpiazzata da voglia di rivalsa nel giro di meno di un mese.

Lo Monaco forse dovrebbe accettare la naturalezza dei biscotti, che sono forse la forma più pulita e naturale di "truffa" nel calcio: magari si fosse rimasti ai tempi in cui le combine erano un pareggio senza arte né parte all’ultima giornata. Inoltre dovrebbe accettare che se il Catania andrà in serie B è perché ha raggranellato si e no dieci punti nel girone di ritorno.

Lo Monaco (come Pulvirenti) rappresentano perfettamente il calcio moderno, caratterizzatato dalla tragedia facile e profondissima, quanto di breve durata,  e dalle vesti stracciate per le ingiustizie subite (al punto che i giocatori della Juventus insistono a chiamare ingiustizia la loro stagione in B, e a chiamarsi per telefono con padron Moggi).  Noi non ci stupiamo, ma pare che il mondo dei giornalisti sportivi invece sia perfettamente in linea con tutto e questo.

Bando alle ipocrisie: viva i tempi dei biscotti e delle torte.