Anche nel calcio e nelle sue derive sociali, esiste la storia ufficiale, di televisioni e giornali mainstream, e quella minore, spesso meno aulica, ma sempre più schietta e intrigante. Le vicende di Calciopoli e la recente emergenza ultrà, sono due esempi piuttosto lampanti circa il modo di proporre visioni del mondo che passano, infine, come le versioni definitive della nostra storia. Su Calciopoli si è proceduto in modo schiettamente italiano: dapprima titoloni e grida di scandalo, poi, piano piano, tutto rientrato, trafiletti da leggere con la lente di ingrandimento. La magagna è scoppiata, si è dato fiato alle trombe, si è identificato il Grande Male (Moggi) poi è arrivato il momento di voltare pagina e fine. Così gli stessi eventi possono essere letti in più modi, specie ricordando episodi che, pur nella corale denuncia, sono stati sapientemente oscurati. Perché va bene dire che nel calcio c’era un cancro, meno bene è fare il disturbatore anti sistema, continuare a ciurlare nel manico dei mali del calcio, quando c’è un campionato (noioso) da rendere appetibile per pay tv e carrozzone.
E così ci deve pensare un flagellatore del calcio spesso censurato o quanto meno oscurato, Carlo Petrini, ex calciatore e scrittore da tempo delle magagne del calcio. Il suo nuovo libro, Calcio nei coglioni (Kaos Edizioni, 16€) – una risposta già nel titolo de Il calcio nel cuore di moggiana memoria – non ha rivelazioni o colpi di scena. Si limita a scrivere quanto dai media è stato abilmente messo in un angolo. Unisce i puntini, Petrini. E poiché Calciopoli ha solo messo in luce quanto accadeva da anni, ecco che assumono simpatica rilevanza i verbali di interrogatorio dell’ex designatore Pairetto, che ammette di aver frequentato anni fa il centro massaggi di Torino e di averne usufruito dei servizi più intimi, come altri giocatori di Toro e Juve. Storie di coca, con l’arresto di Padovano e imbarazzanti intercettazioni telefoniche per Caricola e Vialli, altri ex juventini, le telefonate e gli incontri tra Meani, Galliani e Collina, super arbitro creato dai media e la cui aura sembra non essere in difficoltà, mai. Intrighi e vicende, rivoli della cronaca passata alla storia, senza imbarazzi, con linguaggio sprezzante e con denunce precise e dure contro i media, rapidi nel passare da un padrone all’altro e contro i pallonari, i calciatori, bambini viziati dall’oro del calcio.
Anche sul fronte emergenza ultrà si è letto di tutto e di più. A farla da padrone investigazioni para sociologiche mascherate da inchiesta a tutto campo. Giovanni Francesio, in Tifare contro (Sperling & Kupfer, 14 €), tenta un’impresa ardua: sistematizzare la storia ultras degli ultimi quarant’anni, organizzando una risposta al più introverso dei quesiti: perché la violenza in curva attira, molto più di sani propositi ragionati e sensati, come ad esempio il noto Progetto Ultrà?
Una domanda, la cui risposta è semplice ed esplicita nel libro Fedeli alla tribù, di John King, riportata da Francesio: «dentro di te ti caghi addosso, ma l’emozione è talmente una libidine che ti piace da morire più di tutto. Allora la paura la superi e avrai fatto qualcosa che ti durerà per tutta la vita. Né droga, né sesso, né soldi, quello è il massimo».
Ovvero lo scontro, il fare a botte, semplicemente, piace, attira: dapprima terrace culture, presa dall’Inghilterra dove si era soliti imbucare gli avversari nel proprio settore, poi, via via che le misure di sicurezza aumentano, fuori dagli stadi, poi, via via che la repressione colpisce indiscriminatamente, contro le forze dell’ordine.
Il salto infatti è tutto lì: dallo scontro tra tifosi, alla identità ultras, la cosiddetta mentalità, con scontri continui contro i blu, i poliziotti, che da arbitro non considerato (come avveniva in passato) diventano nemici, con un colore ben preciso, come un altro campanile da abbattere. Un passaggio generazionale e motivato: illuminante la citazione di un articolo tratto da Il Foglio (niente meno): «andando fra di loro (gli ultras ndr) si avverte la stessa angosciante sensazione: di essere sotto un tallone di ferro incontrollato e arbitrario, che ti mette le mani addosso e ti perquisisce non per per impedire l’ingresso di bastoni e candelotti, ma per provocare e umiliare, minaccia perché crede che farlo prima sia il solo mezzo sensato di dissuasione».
Storie e Storia, la disgregazione dei vecchi gruppi ultras, la nascita di un individualismo esasperato anche in curva, la cultura della lama, a dimostrare come non esistano scontri leali, ma anche episodi simpatici, come la reazione dei torinisti allo squallido striscione dei laziali Onore alla tigre Arkan. Ospiti a Torino la domenica dopo, i laziali videro la risposta dei granata: Onore a Gatto Silvestro. Una sana presa per il culo, in un mondo ultras il cui problema, forse, è quello di prendersi troppo sul serio.