Una società di calcio moderna

 

A tutti noi rivoluzionari della domenica piacerebbe avere una squadra di calcio nuova, legata a una gestione popolare e collettiva, ma capace di competere ai massimi livelli, una sorta di Saint Pauli della serie A. Purtroppo però il tempo delle favole è finito da un pezzo nel mondo pallonaro, e in ogni caso prima di immaginare un modello societario nuovo per un team di calcio, dovremmo forse provare a conoscerne i meccanismi un po’ più a fondo. Continuando a seguire con attenzione alcuni processi in atto, vedi il tentativo di azionariato popolare per salvare lo Spezia Calcio, non si può non notare come in Italia si abbiano molti esempi di come dovrebbe essere una società di calcio moderna di alta fascia. Alcuni si possono considerare più riusciti, altri sono invece catastrofici. Nessuno ovviamente può considerarsi neanche lontanamente vicino alla perfezione. Cerchiamo di andare con ordine, vedere alcuni esempi e poi cercare di mettere in fila come dovrebbe funzionare in teoria.

Partiamo dall’esempio più eclatante di una società di alto livello che non funziona: l’Internazionale FC. I recenti fatti di cronaca sportiva sono solo la punta dell’iceberg di una società che resta in piedi in virtù della sua storia e della sua natura eccentrica, o per il superiore status intellettuale e morale di alcuni individui (questa è una concessione da tifoso…), più che per una vera e propria comprensione dei perché e dei per come del management calcistico. Una società che dopo 18 anni riesce a rivincere lo scudetto, e mentre è vicina a coronare il sogno del secondo scudetto vinto sul campo consecutivamente, si lascia andare a sbattere in prima pagina una chiara guerra intestina tra allenatore, parte dello staff tecnico, parte dello spogliatoio, presidente, responsabili di mercato, dirigenti della società, medico e senatori del team, mettendo in seria discussione l’intera stagione è un esempio paradigmatico di come diverse cose NON dovrebbero funzionare. La nevrosi origina una debolezza intrinseca di quanto viene sedimentato nel corso degli anni e condanna gli interisti a non potersi accontentare di una ottima normalità ma di vivere alti e bassi più ampi di una montagna russa.

Ma gli interisti sono un esempio eclatante, ma non solitario. Nel novero delle società simili a quella nerazzurra possiamo mettere altre grandi squadre italiane e straniere, e alcune piccole squadre, che sommano al problema della confusione societaria di ruoli e funzioni, anche la scarsità di mezzi economici. Esempio delle prime è il Real Madrid attuale, reduce da una guerra di successione nella dirigenza che ha lasciato morti e feriti sul campo, vanificando sforzi di anni nel costruire una squadra, e svendendo giocatori per comprarne altri a prezzi assurdi. Un altro esempio è il Chelsea e il suo patron Abramovich, che ha dilapidato milioni di euro per anni, prima di decidere di stringere la corda, ma senza mai porsi il problema che forse il suo ruolo troppo protagonista sottrae l’aria necessaria al corretto funzionamento di ogni macchina economica, squadre di calcio incluse. Per gli esempi delle piccole squadre vessate da confusione societaria, in Italia come non guardare al Palermo di Zamparini, afflitto dal protagonismo scellerato e improduttivo di un uomo di modeste doti manageriali: l’hanno scorso ha bruciato Guidolin, non un allenatore divino, ma neanche un completo imbecille, e quest’anno è riuscito a dare un duro colpo alla carriera di un giovane promettente come Colantuono, che forse avrebbe meritato un po’ di tempo in più per strutturare un progetto. Ora lo hanno richiamato, spargendosi il capo di cenere. Merito di Cassani e del suo gol all’ultimo minuto. Vedremo come reagiranno i vari Zamparini e Foschi a nuove sconfitte (ci perdonino i tifosi rosanero).

Ma ci sono altri problemi che affliggono le società di calcio a parte la confusione endemica di ruoli, il protagonismo di alcuni dirigenti o allenatori, e l’incapacità di sanare le divergenze per il bene della squadra (che alla fine è anche il bene del dirigente stesso e dell’allenatore stesso, ma si sa che la rabbia e l’ego sono forze spesso auto-distruttive). Ad esempio alcune società hanno un chiaro problema di capacità organizzativa, e per colmarla si appoggiano a meccanismi consolidati ma che ormai forse non sono più attuali: la Juve post-triade è l’esempio perfetto. Ha dovuto spazzare via un bel pezzo di dirigenza, ma non tutta, per timore di non farcela, e così è rimasta incastrata tra il vecchio vomitevole e il nuovo abbastanza scarso in quanto a colpi di genio. L’alternanza di risultati della squadra e la sua bruttezza ne sono il riflesso sul campo. Anche il Milan, che per il resto è forse la società meglio organizzata dal punto di vista manageriale, soffre la centralità in tutto il meccanismo del potere e dell’influenza del proprio presidente, nei cui periodi di basso profilo soffre palesemente di scarsa copertura mediatica e politica, rendendo abbastanza evidente le nevrosi latenti mascherate solo grazie a un sapiente lavoro di immagine.

Poi ci sono i problemi di gestione economica: è vero che il calcio è un’industria ad alto tasso inflazionario, in cui i soldi vengono immessi e fatti girare a ritmi assurdi e fuori controllo. Nel giro di un paio di stagioni i grandi campioni sono passati da un prezzo medio di 20-25 milioni di euro, a uno di 35-40 milioni (Torres, Tevez, Robben tanto per citarne tre), con ingaggi che sfiorano i 10 milioni di euro netti l’anno (Kaka a 9, il prossimo contratto di Ibrahimovic sempre che avvenga a 10 e mezzo, Ronaldinho a 8, ecc). Una bolla speculativa che sta già mostrando la corda: le perdite dei club di grande prestigio sono in crescita, la necessità dei proventi tv diventa sempre più abnorme, i vari patron non investono più e sperano solo di sopravvivere all’ingresso di grandi trust speculativi, e i giocatori cercano di scalare sempre più in alto la piramide del reddito anziché migliorare nel gioco del pallone. Questo allarga il divario con le piccole società e con i vivai che diventano delle appendici scarsamente coltivate, impoverendo la qualità del prodotto calcio sempre di più. E’ chiaro che le due linee tendenziali prima o poi spezzeranno in due il giochino. Alcune società sono messe meglio su questo frangente, come la Fiorentina, ad esempio, anche se i Della Valle non sono esattamente una garanzia di durata nel tempo e di limpidezza. La Roma cerca di porre sempre l’accento su questo aspetto, ma tutti sanno che i Sensi prima o poi dovranno vendere dato che per fare fronte alla bolla hanno già buttato a mare tutto il patrimonio di famiglia.

Quindi non si salva nessuno? No. Non si salva nessuno. Forse perché nessuno è disposto a pensarci seriamente e scommettere sul rinnovamento di una classe dirigente nel calcio italiano che ci porti a qualcosa di migliore e più interessante.
In una squadra di calcio è importante distinguere alcuni ruoli fondamentali, ognuno dei quali non può confliggere con altri e necessita della giusta autonomia. Nella squadra perfetta questi ruoli sono perfettamente armonizzati tra loro, e si muovono in maniera sinergica soprattutto nei momenti di frattura: i cambiamenti di ciclo nelle squadre, la necessità di disporre dei giocatori affermati e forti nello spogliatoio, il cambio di un tecnico a favore di un  altro, o la gestione di un periodo difficile per la squadra.

Vediamo alcuni di questi ruoli (che di solito andrebbero affidati a un team con un dirigente a coordinare il tutto che si assume la responsabilità anche di eventuali cappelle) immaginando una società perfetta e con le seguenti premesse: nel calcio di oggi fondamentali sono le relazioni con le istituzioni e il potere mediatico. Il tentativo che faremo nelle prossime righe è una sorta di ovvia conclusione, fermo restando la vita di un calcio malato e che non ci piace. Il massmo sarebbero squadre di proprietà dei propri tifosi, in un calcio in cui non contano amicizie e rapporti con Leghe, arbitri eccetera. Purtroppo però il calcio moderno è quello che è. Quindi ci siamo divertiti a mettere in fila lapalissiani concetti di management, chiedendoci come mai, almeno l’abc, non venga messa minimamente in pratica. La confusionde del calcio moderno e la sua organizzata disorganizzazione, evidentemente colmano buchi e nascondigli di operazioni irregolari e necessità che i soldi girino, girino e girino ancora, finendo, possibilmente, sempre nelle medesime tasche.

In primo luogo è necessario un presidente che sia in grado di essere la faccia della società in pubblico e che abbia voglia di investire e di raccogliere i proventi sia economici che sportivi del lavoro svolto dalla società; il suo unico interesse dovrebbe essere quello di migliorare i risultati della squadra, e non quello di essere il protagonista indiscusso di una fase della sua storia. Il presidente dovrebbe dettare a inizio anno un margine di spese/investimenti, motivare la squadra e godersi i premi, lasciando il resto a persone capaci (ovviamente se lui è capace saprà scegliere le persone giuste).

Sotto al presidente ci deve essere un gruppo di dirigenti capaci: qualcuno che si occupi di coordinare il mercato, qualcuno che si occupi di coordinare l’aspetto economico della società, qualcuno che si occupi della comunicazione e dell’immagine della società. Queste tre figure devono essere necessariamente un relais tra le necessità societarie e quelle dello staff tecnico. Non possono agire indipendentemente dalle une e dagli altri. Il responsabile di mercato non può comprare giocatori a caso, imponendoli poi allo staff tecnico, o eccedendo il budget stabilito dal patron, così come un responsabile della comunicazione non può prescindere dagli impegni sportivi della squadra per programmare la sua attività, e dal tipo di immagine che la squadra vuole saper proiettare (giovane e determinata; vecchia e solida, con grande esperienza; folle ma autorevole).

Una società moderna ha poi bisogno di qualcuno che sia in grado di curare i suoi rapporti con le entità di coordinamento con i propri simili: nel caso del calcio qualcuno che conosca e sappia interagire con il CONI, con la FIGC, con la Lega, che abbia la diplomazia e l’intelligenza necessaria, nonché la capacità di portare a casa dei risultati. Serve poi qualcuno che svolga lo stesso ruolo a livello internazionale, senza dare troppo nell’occhio ma sapendo a chi parlare quando c’è un problema, per fare in modo che il peso della società non sia indifferente al momento delle decisioni.

Poi c’è lo staff tecnico: da un lato un settore medico preparato e capace di ottimizzare sia i tempi di recupero degli infortuni che la loro prevenzione; dall’altro un settore atletico che deve essere in grado di modulare il livello di preparazione dei giocatori a secondo degli impegni della stagione, nonché di prevenire un alta incidenza di infortuni muscolari e legati a una preparazione inadeguata. Infine ci sono i giocatori e l’allenatore: i primi devono essere messi in grado di fare al meglio il proprio lavoro, proprio grazie all’intervento di tutto il resto della struttura societaria, non devono essere né troppo coccolati, né troppo poco, ovvero devono sapere che alle loro buone prestazioni corrisponde non solo la gloria ma anche il reddito che percepiscono, e che tutto dipende da quello, non da simpatie o antipatie di sorta nella dirigenza o nella società. In una società moderna il sentimentalismo conta poco se non è ancorato nelle prestazioni: Gerrard non lascerà mai Liverpool, ma anche e soprattutto perché offre delle prestazioni di altissimo livello.
Il discorso sull’allenatore è difficile: un tempo si occupava solo di disporre in campo la squadra e di motivarla, ma ormai non è più così (già dagli anni Sessanta peraltro). L’allenatore deve coordinare il proprio progetto con la struttura societaria, senza scampo, e scegliere società in cui c’è una comune visione progettuale: allora i tasselli del mercato, della preparazione, del peso diplomatico e della gestione economica e comunicativa della società si incastreranno pesantemente. A un allenatore deve essere ormai riconosciuto il ruolo di coordinamento delle attività sportive, e al suo progetto si devono riferire le altre parti societarie, nei margini del budget e dello spirito voluto dal presidente di una società. Non è credibile che una società funzioni in modo che ogni parte fa di testa sua, cercando di obbligare le altre ad adeguarsi. E’ un giochino che dura poco prima che qualcuno ci lasci le penne, con scorno più che altro dei tifosi.

Non sembra poi così difficile guardare nel passato e nel presente per prendere il meglio dell’organizzazione di una società di calcio. Allora come mai molti club hanno problemi molto gravi da questo punto di vista? Perché i loro presidenti accettano di perdere soldi piuttosto che ristrutturarli per aspirare a un futuro migliore? E’ un mistero avvolto nelle nebbie della natura umana, perché è solo da quella che dipende l’incapacità di molti di eccellere, o almeno di provare a eccellere. Basterebbe sedersi a un tavolo e disegnare un banale organigramma, trovare le persone giuste, e poi rispettare i meccanismi che ci si è dati. Ma forse per fare questo bisognerebbe che tutti le parti coinvolte ammettessero i loro limiti, i loro errori e avessero voglia di costruire qualcosa insieme. Per i tifosi e per la gloria, che poi è il fine ultimo dello sport. 🙂